I giornali gli avevano appiccicato addosso quel nomignolo di «Stormin' Norman» - Norman il tempestoso -, ma il generale «orso» come lo chiamavano i suoi soldati se n'è andato in punta di piedi, ha tolto il disturbo in silenzio. Il generale Norman Schwarzkopf, morto ieri all'età di 78 anni sapeva d'essere un uomo del passato. E non se ne dispiaceva. Dopo la «sua» impresa, dopo la «liberazione» del Kuwait occupato da Saddam Hussein, «Stormin' Norman» aveva visto altre guerre. E non gli erano piaciute. Durante le sei settimane di Desert Storm era diventato, suo malgrado, il primo generale protagonista di una guerra trasmessa in diretta televisiva, ma era rimasto un condottiero all'antica. Uno che prima obbediva, poi combatteva. La sua campagna del 1991 non è null'altro che un'interpretazione letterale degli ordini ricevuti dal presidente George Bush padre e dal capo di stato maggiore Colin Powell.
Schwarzy prima usa l'aviazione per disintegrare a colpi di missili e bombe le infrastrutture irachene, poi lancia nel deserto i carri Abrahams, infine fa poltiglia dei blindati e dei soldati di Saddam in fuga da Kuwait City. A quel punto è ad un passo da Bagdad. Gli basterebbe un piccolo balzo in avanti per cancellare Saddam dalla storia con una dozzina d'anni d'anticipo. Ma Schwarzkopf non prende iniziative. Il presidente gli ha ordinato di fermarsi e lui lo fa. Per lo scrupolo concede perfino ai generali iracheni di usare gli elicotteri per ritirarsi. Quelli, già che ci sono, li usano anche per sterminare i curdi al nord e gli sciiti al sud.
È l'unica nota stonata di quella vittoria. L'unico neo di un successo che gli garantisce una gloria mai tributata a nessun altro generale americano dalla seconda guerra mondiale in poi. E che nessun altro militare, dopo di lui, riuscirà a conquistare. Al liberatore del Kuwait, allo stratega di «Desert Storm» l'America elargisce entusiasmi e celebrazioni riservate solo a personaggi come Lindbergh, «Ike» Eisenhower o agli astronauti della prima passeggiata sulla Luna. In quei giorni radiosi «Stormin' Norman» sfila in mimetica tra le folle di Broadway a New York, sale allo Studio Ovale per farsi appuntare sul petto da Bush padre la «medaglia per la libertà» della Casa Bianca, s'inchina davanti alla regina Elisabetta che lo nomina suo cavaliere. Ma non si monta la testa. Si guarda bene dal saltare sul trampolino per il Senato messogli a disposizione dai repubblicani. Evita accuratamente le insidie delle presidenziali e il miraggio della Casa Bianca. Del resto Schwarzy lo sa, quel «mondo nuovo», segnato dalla guerra in Somalia, dall'11 settembre e dalle spedizioni in Afghanistan ed Iraq non gli appartiene. Lui è un sopravvissuto del Vietnam, un reduce delle battaglie all'antica. E non se ne vergogna. Quando dopo i trionfi iracheni un giornalista gli chiede cosa pensi della guerra Schwarzy lo squadra stupito. «Scrivi pure - gli risponde - che io sono contro la guerra per capirlo mi è bastata la terribile sensazione di futilità provata la prima volta in cui ho visto un soldato morirmi tra le braccia ed ho capito di non poterci fare nulla. È in quei momenti che comprendi l'orrore della guerra».
Quei soldati cadutigli attorno durante gli anni da ufficiale in Vietnam sono il suo fantasma e il suo cruccio. Nel maggio 1970 durante il suo secondo incarico nel sud est asiatico il colonnello Schwarzkopf non esita a far decollare un elicottero per farsi portare al fianco di una pattuglia rimasta bloccata su un campo minato. Ferito dalle schegge di un ordigno che stacca il piede ad un suo soldato si mette alla testa della squadra, la incoraggia, la guida fuori dalla trappola mortale.
Ed anche nel deserto iracheno resta un generale in mimetica. Uno che quando gli chiedono quali siamo le doti di un condottiero risponde «carattere e strategia». «Ma se proprio - aggiunge - devi rinunciare a una delle due allora lascia perdere la strategia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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