In Israele è guerra aperta alla pax americana

Medio oriente, anche per Obama è l'ultimo treno: il piano Usa è un libro dei sogni più che una road map. Ma non ci sarà altra chance

In Israele è guerra aperta alla pax americana

Sulla carta del New York Times sembra semplice, ma da quando due giorni fa Thomas Friedman ha descritto (e le sue fonti obamiane sono più che interne!) le linee della pax americana che Kerry presenterà entro pochi giorni, la discussione in Israele è alle stelle. Sono idee elementari, che non hanno niente di geniale e distribuiscono con semplicità americana qualcosa di buono e qualcosa di cattivo a israeliani e a palestinesi. Ma Friedman avverte che se questo treno dovesse passare senza che nè Abu Mazen nè Netanyahu lo prendano al volo, il prossimo li travolgerà. Obama ha biosgno di questo successo. Le fonti di Friedman descrivono un libro dei sogni più che una road map, ma fanno sentire alle parti che l'amministrazione Usa gli respira sul collo. L'ambasciatore americano in Israele Dan Shapiro dice che Kerry ha solo raccolto idee venute dalla discussione fra le due parti, e che il documento vuole essere la base per passare alla fase due su un base molto concreta «che non lascia spazio alla fantasia». Il piano chiede la fine del conflitto e di ogni richiesta ulteriore dopo che Israele si sarà ritirata dal West Bank oltre la linea del 67. Questo non piace a Netanyahu. Anche la Valle del Giordano, il vallo che separa Israele dal mondo arabo e, come diceva Rabin, un imprescindibile spazio di difesa, conoscerà nuovi arrangiamenti, in cui Israele verrà emarginato. In genere, la ritirata non includerebbe alcuni blocchi di insediamenti che verrebbero ricompensati con territorio israeliano. I Palestinesi avrebbero la loro capitale a Gerusalemme est ma devono riconoscere Israele come lo stato-nazione del popolo ebraico. E questo gli duole alquanto.

Il piano non include il diritto al ritorno per i profughi palestinesi (per altro ormai alla terza-quarta generazione). La lista è quella delle vacche sacre. Per esempio Abu Mazen ha sempre detto che per lui è fuori questione riconoscere uno stato del popolo ebraico, e la sua gestione è piena di odio verbale e la sua politica di incitamento sui libri e alla tv. Israele per altro teme che restringere i suoi territori ai confini del 1967 lo costringa in uno spazio indifendibile dal terrorismo e dallo jihadismo che si espande. E gli abitanti dei Territori in questi giorni sono molto nervosi, da quando Netnayahu ha dichiarato a un convegno che nei suoi piani nessuno verrà sgomberato. Un omaggio postumo ai poveri coloni della striscia di Gaza, che però è stato interpretato come l'idea che decine di migliaia di ebrei resteranno nello Stato palestinese a venire, come esistono arabi israliani nei confini dello Stato Ebraico. Ma subito la leadership palestinese ha detto che non vuol vedere neppure un ebreo nei suoi confini.

Intanto il partner di governo e ministro Naftali Bennett ha praticamente dato a Netanyahu dell'assassino per aver ventilato l'idea: i palestinesi uccideranno chi lascerai nelle loro mani, gli ha detto, rinunci alla patria ebraica e ai nostri compatrioti.

Bibi gli ha chiesto di scusarsi pena le dimissioni forzate, e Bennett le ha porte, ma i settler ormai si vedono minacciati da due destini: quello di essere strappati dalla loro casa, dalla loro vita, dai loro affari come furono gli abitanti della striscia di Gaza, e essere abbandonati nele mani di un'entità nemica. In questa confusione, Netanyahu vive un dilemma profondo. Non si scambia la sicurezza con la benevolenza, ma il rischio della rottura con gli Usa è fatale.

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