Quando la legge è il primo nemico dei nostri militari

Sempre più spesso i comandanti europei incorrono in azioni legali sui diritti umani intentate da civili o dai loro stessi soldati

Il glorioso esercito inglese non combatte più come una volta, ma con una mano legata dietro la schiena. La nuova minaccia non è Al Qaida o i talebani. Le azioni legali in nome dei diritti umani, le cause intentate dagli stessi soldati e gli innumerevoli cavilli applicati alle zone di guerra fanno più paura del nemico.

Per noi italiani non va meglio. I magistrati sequestrano i mezzi coinvolti negli scontri, che servono come il pane. Talvolta chi ha sparato facendo il suo dovere viene trattato come un imputato di chissà quale crimine. L'odissea dei marò in India è un esempio. E la catena di comando si affida al «consigliere legale» per prendere le decisioni più delicate. «Nella sostanza applichiamo ai conflitti di oggi norme simili a quelle dell'antiterrorismo in Italia negli anni Settanta e Ottanta - stigmatizza un ufficiale veterano dell'Afghanistan -. Peccato che la minaccia, la mentalità e l'ambiente operativo siano completamente diversi. Un talebano non è mica un brigatista con la P38».

Ieri il Times di Londra ha annunciato l'uscita di una devastante ricerca non a caso intitolata «The fog of law», la nebbia della legge parafrasando quella della guerra. Le operazioni militari britanniche «sono minacciate da un versante inaspettato: la legge. I recenti sviluppi normativi hanno minato la capacità delle forze armate di operare efficacemente sul campo di battaglia».

Lo denunciano il tenente colonnello Thomas Tugendhat e Laura Croft, avvocato in pensione dell'esercito Usa. La ricerca è stata pubblicata da Policy Exchange, un rinomato centro studi inglese. «L'applicazione alle operazioni militari oltremare, di leggi ideate per casi civili in ambiente nazionale, hanno cambiato la maniera in cui le forze armate agiscono», sottolinea la ricerca.

Il primo obiettivo nel mirino degli analisti sono le norme della convenzione europea sui diritti umani usate da miliziani o ex prigionieri per trascinare in tribunale i soldati britannici. L'obiettivo è ottenere, più che giustizia, una lauta compensazione in denaro. Nell'ultimo anno Londra ha speso 153 milioni di euro per queste cause. Non solo: gli ufficiali britannici, che rischiano le vite dei loro uomini e ordinano di sparare sul nemico, oltre che della battaglia si preoccupano di raccogliere prove per scagionarsi in un possibile processo. «Queste incursioni giudiziarie (...) rischiano di paralizzare il militare - si legge nella ricerca - con inchieste dei coroner, la legislazione su salute e sicurezza e la vasta gamma di diritti europei».

Per i soldati italiani impegnati all'estero si applica il codice penale militare di pace. Ad ogni schioppettata la procura di Roma apre un fascicolo dovuto, ma che suona spesso assurdo. I carabinieri sequestrano i blindati coinvolti negli scontri, anche se hanno solo qualche ammaccatura. Non si possono neppure utilizzare per i pezzi ricambio. «Così il talebano che ci ha attaccato, anche se non è riuscito a distruggere il mezzo ha raggiunto comunque l'obiettivo di metterlo fuori uso» fa notare chi ha combattuto in Afghanistan.

Sul fronte di Bala Murghab un soldato italiano fu colpito alla testa da un proiettile. L'elmetto esplose ed il colpo provocò solo una ferita non grave sul cuoio capelluto. Il giovane militare voleva tenersi l'elmetto per ricordo, ma era stato sequestrato come «prova». Talvolta chi spara per difendersi viene trattato come un imputato di chissà quale crimine.

La paura di grane legali incide sulla linea di comando e gli ufficiali più alti in grado si affidano spesso al consulente legale per decidere se bombardare oppure no.

La conclusione del rapporto inglese sulla «nebbia della legge» prende in prestito una famosa frase: «Quante divisioni ha il Papa?» chiese Stalin. Oggi la domanda è: «Quante divisioni ha la magistratura?».

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