Il Cairo - «Ma chi devo scegliere? Shafik, Morsi, melanzane o insalata? È lo stesso», dice sarcastico mostrando la verdura in cucina il proprietario di un ristorante del centro. Nel quartiere popolare di Mounira, a due passi da un seggio, l’ex capitano della Marina Sami Abu Hussein spiega perché annullerà la scheda: «Non voglio un Stato religioso. E non voglio cancellare la volontà di cambiamento dei giovani».
Ieri, gli egiziani hanno fatto la coda davanti ai seggi per votare al secondo turno delle elezioni presidenziali. La sfida elettorale che va avanti anche oggi è tra l’ex uomo del regime, Ahmed Shafik, e il candidato dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi. Il voto doveva essere il punto di arrivo di mesi di transizione politica, un tentativo di democratizzare il Paese iniziato a gennaio 2011 con la rivolta che ha portato alla caduta di Hosni Mubarak. Ma soltanto 48 ore prima dell’apertura dei seggi, la Corte Costituzionale con una mossa definita da molti «un golpe giudiziario» ha decretato l’illegittimità del primo Parlamento eletto in Egitto. I poteri legislativi dovrebbero passare ai militari alla guida del Paese da febbraio 2011. La decisione è arrivata in un Egitto polarizzato da una scelta elettorale tra due estremi in cui non trova rappresentanza la rivoluzione che ha animato per mesi la piazza.
In coda davanti a un seggio non lontano dall’iconica piazza Tahrir c’è Hayem Mohammed Abdel Hamid: «La questione è chiara: rivoluzione o non rivoluzione. Voto Morsi, per non tornare indietro». Per lei, la dissoluzione del Parlamento è un insulto a quei «milioni di egiziani che hanno votato a novembre». La questione divide il Paese. In centro, Nour mostra il dito sporco di inchiostro. Ha votato per l’ex premier di Mubarak, Shafik, «un vero politico», spiega. «Rispetto la magistratura e penso che il Parlamento fosse illegittimo».
Anche tra chi la rivoluzione l’ha fatta c’è chi pensa che qualcosa di buono possa emergere dalla sentenza. Bassem Kamel, del Partito social democratico, siede da dicembre nel Parlamento colpito dalla sentenza: «Non posso dire di essere triste. Allora, avevamo tre mesi di vita, quando si voterà ancora avremo un anno di esperienza: passeremo dal 5 al 10%».
«Abbiamo dato loro la possibilità di fare questo perché noi eravamo divisi», spiega un suo compagno di partito. «Loro» sono i militari, «noi» le forze rivoluzionarie laiche e liberali ma anche i Fratelli musulmani. Per molti organizzatori di piazza Tahrir, se oggi i militari stanno controllando il gioco è perché mentre i movimenti giovanili e la Fratellanza litigavano, il regime si riorganizzava. «I militari hanno promesso e non hanno mantenuto - dice Ahmed Maher, leader del movimento 6 Aprile - Sono stati furbi, hanno usato gli islamisti contro di noi».
Poche ore dopo la decisione dei giudici, un gruppo di giovani della rivoluzione ha incontrato i vertici islamisti: «Abbiamo chiesto loro di non presentarsi al voto, di non legittimare la decisione della Corte - spiega Moaz Abdel Karim - Hanno rifiutato». È stato l’ennesimo strappo. Per mesi, il movimento islamista ha cercato il compromesso con i militari, andando contro la volontà della piazza, dice Moaz. Gli scontri di questi mesi tra liberali e islamisti sulla formazione di un'Assemblea Costituente hanno indebolito sia i rivoluzionari sia la Fratellanza e frustrato il pubblico, aprendo così la strada alla mossa dei giudici.
I Fratelli musulmani, i più colpiti dalla sentenza, sembrano evitare per ora lo scontro con l’esercito. Il Parlamento ha ricevuto ieri l’ordine di scioglimento. La Fratellanza in un comunicato ha accusato i militari di voler monopolizzare il potere e chiede un referendum.
«Ora ci concentriamo sulle elezioni - dice Nasreen Moammad, portavoce della campagna di Morsi - ci sono vie legali per contestare la dissoluzione del Parlamento. Le seguiremo. Scenderemo in piazza soltanto se ci saranno brogli alle urne». Secondo lo staff del candidato, Morsi avrebbe ottenuto nel primo giorno il 69% dei consensi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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