Il Green deal è confermato. Ma non graverà sugli Stati

Von der Leyen ha deciso di insistere con il piano ecologista. Confindustria: «Costi da 1.100 miliardi»

Il Green deal è confermato. Ma non graverà sugli Stati
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Come un’acrobata sulla fune Ursula von der Leyen si è destreggiata ieri in pericolosi (e improbabili) equilibrismi semantici per giustificare la scelta di proseguire sull’insidiosa strada del Green Deal anche in questa legislatura 2024-2029.

La locuzione inglese che significa «patto verde» è stata ripetuta quattro volte nelle 30 pagine del programma. Quattro citazioni anche per il neologismo «Clean Industrial Deal» (Accordo per l’industria pulita). «Servono industrie competitive e posti di lavoro di qualità nei primi cento giorni del mio mandato», ha ribadito l’ex ministro tedesco della Difesa insistendo sulla necessità di lanciare un piano per l’industria pulita tagliando le emissioni di anidride carbonica del 90% al 2040.
Insomma, un’ampia apertura alle ambizioni dei Verdi ma anche una disponibilità all’ascolto delle ragioni di quel centrodestra che è stato escluso senza mezzi termini dalla maggioranza dell’Europarlamento. Il funambolismo di von der Leyen si è sostanziato nell’accorta espunzione dei temi più divisivi come lo stop ai motori endotermici dal 2035.

«Occorre rendere più semplice passare a opzioni più sostenibili sulla mobilità», ha affermato.

«La neutralità climatica entro il 2050 richiederà un’ampia gamma di tecnologie innovative, in settori che vanno dalla mobilità all’energia in cui gli e-fuel (i carburanti prodotti per elettrolisi; ndr) avranno un ruolo da svolgere». Ancora una volta nessuna citazione dei biocarburanti sulla cui produzione l’Italia è all’avanguardia.
Ma tant’è.

Se von der Leyen non fosse espressione di un rigore teutonico capace, però, di empatia, si potrebbe parlare di «veltronismo»: ogni affermazione non esclude a priori il suo contrario, i contorni sono sfumati, sembra sempre possibile un colpo di scena. O, almeno, è quello che si vuole lasciar intendere. Per quanto concerne gli investimenti von der Leyen si è limitata a indicare l’urgenza di «sbloccare i finanziamenti necessari per la transizione verde, digitale e sociale, massimizzando i fondi pubblici e la leva finanziaria, riducendo i rischi del capitale privato, lavorando a stretto contatto con la Banca europea per gli investimenti». Nessun cenno a nuove forme di finanziamento pubblico, che pure è un sentiero che l’Europa ha deciso di percorrere ha deciso di lavorare. Berlino potrebbe offendersi perché la Germania e i suoi alleati non vogliono mai più ripetere l’esperienza di Next Gneration Eu: ognuno le risorse deve trovarle in casa. Se, poi, il Patto di Stabilità blocca un po’ tutto, non è affare di Berlino. E, infatti, del Patto Ursula non ha parlato.

Il rinvio, però, è all’importanza di completare l’Unione dei mercati dei capitali, che potrebbe attrarre ulteriori 470 miliardi di euro di investimenti all’anno. È il lavoro al quale è stato delegato l’ex premier pd Enrico Letta. Usare meglio la Bei, gli appalti pubblici (14% del Pil Ue) tenendo conto che un aumento della loro efficacia dell’1% potrebbe far risparmiare 20 miliardi di euro all’anno.

La sola idea di rilievo è la creazione di un Fondo europeo per la competitività parte del prossimo bilancio Ue «rafforzato» nel prossimo quadro finanziario pluriennale. Riguarderà gli anni oltre il 2027, quando la legislatura starà volgendo al termine, e si occuperà di sovvenzionare la transizione green, digitale e difesa.
«Non mi preoccupa solo il fatto che continuiamo con il Green Deal, ma anche il taglio di emissioni del 90% al 2040.

Questa decarbonizzazione

costerà 1.100 miliardi di euro nei prossimi 10 anni. Questo vuol dire mettere costi in più alle nostre aziende». Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha già un’idea dello spartito che Bruxelles vuole suonare.

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