La fabbrica del romanzo si sta riconvertendo

La delocalizzazione ha modificato il tessuto produttivo e gli anni ’90 sembrano lontani un secolo. Ecco le nuove voci che possono raccontare questo cambiamento.

La fabbrica del romanzo si sta riconvertendo

Che cos'è, o che cosa è stato, il Nordest d'Italia? La definizione possiamo benissimo lasciarla ai sociologi, agli antropologi, alla storia, alla statistica, alla demografia. Per quanto riguarda la letteratura, non possiamo invece non tener conto del fatto che ci sono stati, a tratti, dei veri e propri movimenti, delle ondate, se così si può dire, di giovani autori che provavano a interpretare al meglio la società in cui stavano crescendo.

Erano, i loro, punti di vista differenti sulla stessa realtà: quella delle industrie più o meno grandi che negli anni Novanta ancora proliferavano, avendo inciso, nei decenni precedenti, sulla morfologia e sulla struttura sociale di un'area del Paese, il Triveneto, spesso vittima della nera povertà.

Della cultura contadina e della montagna avara ha trattato Mauro Corona, ora ridotto a macchietta televisiva, ma che dal suo osservatorio sul confine tra Veneto e Friuli, fra le valli bellunesi e la Carnia, ha captato le transizioni non sempre benevole dal mondo arcaico alla postmodernità. In pianura, tra le nuove leve, gli eredi dei Luigi Meneghello e dei Mario Rigoni Stern, ci sono stati i boomer, nati negli anni Sessanta e Settanta, testimoni di una coda ancora vigorosa della crescita economica. Abbiamo parlato con Massimiliano Santarossa, classe 1964, che a Pordenone dirige la casa editrice Biblioteca dell'Immagine, presso cui ha anche pubblicato i recenti Pane e ferro, un'epopea famigliare che attraversa il Novecento, e Gelsi e sangue, che racconta il secolo precedente.

«Il sistema del Nordest, quello basato sulle fabbriche, ha ormai fatto il suo tempo, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008. Messo in dubbio il ruolo di locomotiva d'Italia, il Nordest economico è finito, ucciso dalla delocalizzazione (per la quale Massimo Cacciari si è speso, per esempio con certi suoi viaggi a Timisoara, in Romania). Non vedo più alcun ruolo per la letteratura d'impegno civile, quella che era propria di chi, come me, proveniva dal ceto operaio e aveva conosciuto la fabbrica dal di dentro», dice Santarossa.

Fra quanti hanno incarnato questo spirito c'è Vitaliano Trevisan, vicentino (vicentini, prima di lui, furono Goffredo Parise, Guido Piovene, Raul Rossetti, Virgilio Scapin, Neri Pozza, per citare alcuni nomi di autori che avevano qualcosa da dire). Trevisan si è tolto la vita quindici mesi fa, dopo una carriera di libri, testi teatrali, sceneggiature, ruoli di attore nel cinema. Una vita piena raccontata in Works (Einaudi) del 2016, una delle sue opere più significative, rassegna autobiografica di lavori di ogni genere, in contesti spesso umilianti. «Ormai mi trovo - continua Santarossa - per idee politiche, quasi dalla parte opposta, rispetto al tempo dei miei esordi. Oggi vedo che sono gli imprenditori a faticare, a fronte di una schiera di divanati che si accontentano del reddito di cittadinanza. Del resto gli italiani non vogliono fare gli operai, forse anche per via di contratti sempre al ribasso».

Una generazione forse invecchiata e fuori dai giochi, ribadisce. E in effetti, tornando agli autori che ci vengono in mente, ci sono i padovani Romolo Bugaro, Marco Franzoso, Giulio Mozzi, il pordenonese Gian Mario Villalta, il pordenonese d'adozione Alberto Garlini, il veneziano Tiziano Scarpa, i triestini Mauro Covacich e Pino Roveredo (morto nel gennaio scorso). Tutti o quasi ormai lontani dalle tematiche del loro territorio, che pure avevano affrontato magari da un punto di vista più borghese, sempre con sguardo lucido sulle nevrosi indotte da un benessere raggiunto in tempi brevi. Proprio Bugaro, per esempio, ha appena dato alle stampe un romanzo intitolato I ragazzi di sessant'anni (Einaudi, pagg. 144, euro 16). Un resoconto amaro e, se ci perdonate l'ossimoro, tristemente umoristico, di come si sia ridotta l'ultima generazione che ha usufruito del miracolo economico. Ecco allora Lilio A., a Verona, davanti alla scalinata della Gran Guardia, che «dopo la maturità era entrato nell'azienda di trasporti di famiglia, il lavoro che lo aspettava da sempre e che avrebbe dovuto tenerlo al riparo dalla pioggia per sempre, eppure qualcosa non aveva funzionato, e adesso il vecchio Lilio aveva una pancia gigantesca e il viso rosso e gonfio da bevitore, l'espressione vaga di quelli senza nessuna direzione, nessuna intenzione, svuotati dall'eccesso di obbedienza al destino mentre si accendono l'ennesima Marlboro».

Di fronte a questo mezzo sfacelo, o perlomeno di fronte a questa confusione, è ancora opinione di Santarossa che valga la pena tornare alla scoperta delle radici, non tanto del territorio, quanto proprio della terra. Il che, aggiungiamo noi, passa dalla conoscenza della propria storia, come dimostra da anni Andrea Molesini con i suoi corposi romanzi storici. Dove un'ombra sconsolata mi cerca (Sellerio, 2019) è un racconto di formazione ambientato a Venezia tra il 1938 e il 1945. Idem Umberto Matino, di Schio, che con Biblioteca dell'Immagine ha pubblicato nel 2018 I Rossi, un giallo intrecciato alle vicende dell'industriale tessile vicentino Alessandro Rossi, fondatore della Lanerossi. Epopee imprenditoriali che si sono svolte e consumate fino all'incerta configurazione del nostro presente.

E in effetti sarebbe ora il

caso che anche gli scrittori nati di recente (pochini, per la verità, e ancora esangui) cogliessero l'occasione per un passaggio di testimone e per raccontarci qualcosa del mondo così com'è percepito oggi, anche a Nordest.

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