Il fantasma di Landolfi e la figlia Idolina

Aurelio Picca ricorda una grande famiglia dimenticata della letteratura italiana

Il fantasma di Landolfi e la figlia Idolina

Quando da ragazzo vedevo le foto di Tommaso Landolfi, il suo volto etrusco-volsco (Curzio Malaparte di quei tratti scriveva: fronte alta, naso nobile, labbra sottili aggiungendo al prototipo italico: baricentro alto), io non mi soffermavo sullo sguardo inappartenente, da uccello notturno; fisso eppure umido; no, puntavo al cappello che era di lato. Immaginavo come lo indossasse. Da allora ho aspettato tanto tempo per calcarmelo in testa come lui.

Prima di leggere Le due zittelle, avevo letto Rien va, Racconto d'autunno (il più umano: da emotività boschiva estratta tra i boschi degli Aurunci e degli Ausoni dove sorge Pico Farnese, paese nativo de «il poeta», come lo chiamavano i fornai sentendolo aggirarsi di notte); e mentre leggevo andavo a Pico in pellegrinaggio. Anche al buio come un medium perché mi ero messo in testa di catturare le ombre, i fantasmi, con la folle illusione di incontrare lo scrittore di Viola di morte. Ma la mia meta era soprattutto il cimitero e la sua tomba. Mi appariva il luogo benedetto tra i tanti sacri che ho creduto di incontrare durante la vita.

La sua tomba nera a forma di piramide. Di una antichità calcolabile forse solo dagli egizi. La porta sbarrata, anzi piombata, come se non si fosse mai aperta e richiusa. Pareva chiusa da prima che il sole sorgesse sulla Terra.

Ebbene un giorno partii col fotografo Tano D'Amico per fare un pezzo su Le due zittelle e la storia di Tombo, la scimmia del racconto trafitta al cuore da uno spillone. Mi interrogavo se davvero l'onnivoro fosse morto o no. Per strada ci fermammo a mangiare col fotografo del '68 di cui non sapevo nulla. Io mangiai capretto; lui cicoria. Devo aggiungere che il servizio mi era stato commissionato da Giuseppe Frangi per il settimanale Il Sabato. Traendo informazioni da un mio emissario presso Pico, mi ero convinto che «le zittelle» fossero ancora in vita. Per farla breve: giunto a Pico fui ricevuto da tre zitelle, non due, che si dichiararono cugine del Poeta. Avevano la testa di un bianco di ovatta, pesavano niente, vestivano di nero e merletti. Fui ricevuto in un salotto mai apparso in un film, mai descritto da Gozzano, né da Moravia. Era un salotto «inappartenente». Il salotto di Tommaso Landolfi... Insomma mi raccontarono del cugino, di quando fin da bambini chiedeva: «Cos'è la morte?». Mi raccontarono dei suoi studi della lingua russa. Mi raccontarono delle terre, della sua passione per il gioco... E forse altre cose intime che non ricordo senza andare a rileggere il pezzo che scrissi trenta anni fa. Non ho forza...

Quando il racconto fu pubblicato dal Sabato, lo scrittore principe della Garfagnana, che scrive di uccelli, cinghiali, lupi e che conosceva assai bene la figlia prediletta di Landolfi, cioè Idolina, mise la donna sull'avviso del pezzo dicendomi successivamente che dopo la lettura la primogenita era furiosa con me. Allora presi il telefono e la chiamai.

Sentii una ragazza dolce che parlando divenne ancora più dolce. Era soltanto perdutamente innamorata di suo padre. Soltanto vestale di suo padre. Soltanto a curare le riedizioni di Adelphi di suo padre. Oggi, ricordandola, credo che solo il corpo di Idolina Landolfi potrebbe indossare una veste cencia e lussuosa, sospesa eppure inchiodata sulla tela del pittore Piero Pizzi Cannella.

Così incontrai Idolina Landolfi in una uscita autostradale di Firenze. Era energia. Elegante e scinta come una nobildonna o modella ciociara. Incominciammo a parlare di cose e di cose. Mangiammo poco fuori l'autostrada. Finita la cena raggiungemmo Firenze. Era notte. Mi parve felice. Per un istante sentii che potevamo innamorarci. Allora mi raccontò che lo scrittore della Garfagnana le aveva detto di fare attenzione con me perché ero «uno stallone». E mi disse che a questo scrittore residente dalle parti del Ponte del Diavolo, aveva rubato la pistola...

Quando lasciammo Firenze ci avviammo verso la tenuta «Guicciardini» dove lei abitava in un casolare immerso in centinaia di ettari di vigneto. Percorremmo una strada interamente tappezzata di rane e rospi. Io adoro i rospi. Ma non poteva che schiacciarli e sterminarli. Ce la feci perché mi sembrava che le foglie dell'Autunno di Landolfi alleviassero le mie sofferenze e le atrocità che subivano rane e rospi. Idolina era serena. Disinteressata alla morte degli animaletti. Arrivati mi disse dove dormire. E mi intimò: «Dormo con la porta serrata e il fucile carico!». Semmai fossi stato uno stallone non avrei mai scalciato.

Il mattino ci trovò sulla via per Milano. Ora la vedevo intera. Alla luce. La vita stretta, i fianchi prosperosi, il seno morbido ma immacolato come di donna che non aveva mai permesso a maschio di palparlo, di succhiare o strizzare i capezzoli. Non ci pensavo allora, alla guida della mia Saab verso Milano, però ora so che Idolina avrebbe potuto partorire molti figli. Invece morì per un tumore all'utero.

Viaggiando le raccontai che avevo avuto un primo amore potente e carico di demoni; sempre in combattimento per cercare l'assoluto. Mi disse: «Il meglio lo hai dato!». In realtà la ricerca del suo Assoluto era superiore alla mia. Fuggiva dagli uomini. Apparteneva a suo padre.

A Milano andammo a trovare Elisabetta Sgarbi. Idolina così spavalda; io timido tutto tappezzato di Gigli. Elisabetta aveva letto il mio dattiloscritto, mi chiese di aspettare qualche mese per pubblicarlo. Poi il destino e la mia stupidità vollero Firenze per I mulatti. La Firenze stendhaliana che tanto amava Idolina. Ci vide anche il buon Doninelli e la sorridente Cristina. Io ero tornato all'abito azzurro di Comme des Garçons, con il collo della camicia bianca rivoltata sui revers della giacca. Lei con i coralli al collo a cinque fili; la veste arancio e color terra; il petto esposto di una vergine. L'unico corpo che poteva indossare un abito di Pizzi. Alla sera dormimmo in albergo. Ognuno nella sua stanza. Al mattino era partita. Al suo posto trovai un biglietto: «Vado a Parigi». Si trattava di un addio straziante.

La rividi dopo molti anni a Roma. Aveva tagliato i capelli. Rideva. Sentii che andava chissà dove.

Dopo ancora qualche anno mi fece chiamare per raggiungerla a Pico. Fui uno stupido arrogante, orgoglioso, forse superbo senza alcun motivo. Non andai a Pico Farnese a parlare di Tommaso Landolfi. Lo vivo con dolore atroce. Poi Idolina morì.

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