Per fare vere riforme anticrisi serve l'assemblea costituente

I mercati speculano sul "rischio-Italia" perché sanno che il governo tecnico non basta. Solo il Parlamento può dare risposte strutturali: compreso il presidenzialismo

Per fare vere riforme anticrisi  serve l'assemblea costituente

La crisi in atto è espressione di una doppia debolezza di governance. Una debolezza della governance europea, in cui la Bce non può essere il prestatore di ultima istanza e dunque il garante ultimo della solvibilità degli Stati membri, in cui manca una comune e coerente politica economica e di bilancio sovranazionale e in cui pertanto non è nemmeno possibile disporre di titoli del debito, garantiti a livello comunitario, i famosi eurobond. Guardando all’Italia, però, la crisi è anche una crisi di governance nazionale. Il termometro degli spread non misura altro che questa doppia debolezza.
È passato solo qualche giorno dall’approvazione della manovra del governo Monti. Il Parlamento ha deliberato; il presidente della Repubblica ha prontamente promulgato. Il pacchetto «salva-Italia» è legge, ma i mercati non sembrano affatto tranquillizzati. Il famigerato spread (il differenziale tra i Bpt decennali e i Bund tedeschi) continua a oscillare intorno alla drammatica soglia dei 500 punti. Cos’è che non funziona, allora? Sgombriamo il campo dalla propaganda. La «colpa» non è del governo Monti. Come, sarebbe intellettualmente onesto ammetterlo, prima non era del governo Berlusconi. La colpa, se lo vogliamo dire così, è di come funziona strutturalmente il sistema politico italiano. E di come funziona la governance europea.
Ma andiamo con ordine. Anche per l’esistenza di una moneta unica e per l’impossibilità di speculare sui tassi di cambio, i mercati hanno cominciato a giocare sui debiti sovrani.
L’Italia è un ottimo bersaglio da colpire. È un grande debitore, sono decenni che ricorre spropositatamente ai prestiti. Nello stesso tempo è, come si dice, un Paese dai fondamentali solidi. Insomma da qualche parte ha risorse; ne hanno soprattutto i suoi cittadini, tanto in termini di risparmio quanto in termini di patrimonio. Questo è paradossalmente un motivo in più per speculare sul nostro Paese. Proprio per questa ragione i mercati provano a strizzarci il più possibile. È il loro mestiere. D’altronde hanno la ragionevole certezza che, per come funzioniamo, non potremo fare a meno di indebitarci ancora, e a pagare saranno i contribuenti. La domanda di prestiti insomma è praticamente certa e immutabile. Il prezzo (il tasso di interesse) allora lo fa solo l’offerta dei prestatori sul mercato dei titoli. Quali motivi hanno i mercati per pensare che nel medio periodo la nostra condizione non cambierà? Innanzitutto la Storia. Per quanto drammatica questa non è la prima crisi che ci troviamo ad affrontare. C’è stata la crisi petrolifera degli anni ’70 e poi quella dei primi anni ’90 (in cui si parlò di possibile consolidamento del debito pubblico). Bene, anzi male, i mercati sanno che ci sono delle costanti nel modo in cui reagiamo a queste crisi. Primo, «passata la bufera» l’Italia riprende a funzionare come al solito. Secondo, data questa premessa, anche quel po’ di riforme strutturali che facciamo vengono poco dopo travolte dal riemergere di nuove storture. Insomma, quello che i mercati hanno sempre percepito è la nostra scarsa credibilità come riformatori.
Ma, si dice, adesso abbiamo un governo tecnico! Il massimo della credibilità, anche considerando la qualità di molti dei suoi componenti (a cominciare dal presidente del Consiglio). Purtroppo, malgrado l’autorevolezza personale, la notizia è che il governo tecnico non basta. Perché a differenza di molti di noi italiani i mercati hanno la memoria lunga. E ricordano che, malgrado il buon lavoro dei governi tecnici, finita l’emergenza la situazione è ogni volta nuovamente peggiorata.
Per queste ragioni non basta arginare l’emergenza nel breve periodo. I titoli sui quali si calcola lo spread sono essenzialmente titoli decennali. Tradotto: chi compra oggi fa una valutazione sul «rischio-Italia» sul medio periodo. Ed è su quell’arco temporale che la nostra credibilità vacilla. Per risolvere questo problema, purtroppo, non basta evocare lo «stato di eccezione» sospendendo la fisiologica dialettica tra maggioranza e opposizione. Il problema non è l’eccezione, il problema è la normalità.
Lo «stato di eccezione» per definizione produce incertezza, provvisorietà. Perché non può essere protratto nel tempo senza trasformarsi in una rottura della democrazia. Le soluzioni di governo dell’emergenza perderebbero legittimazione e capacità propulsiva, sclerotizzandosi sotto un’irresponsabile e burocratica nomenclatura. Se, dunque, malgrado un governo tecnico, la situazione non migliora è altrove che la soluzione va trovata.
Se ben guardiamo proprio gli andamenti degli spread, l’unico momento nel quale ci sia stata una significativa flessione è stato allorché il capo dello Stato ha preso in mano la situazione. Di fronte a un Parlamento ormai in balia dei trasformismi di ogni segno, divenuto laboratorio di alchimie di Palazzo, il capo dello Stato si è erto a «motore di riserva», esercitando i propri legittimi poteri. È questa capacità di riattivare il funzionamento del sistema in condizioni di eccezionalità che ha dato credibilità all’Italia e convinto, momentaneamente, i mercati. Se ne possono trarre due considerazioni: la prima è che, nel quadro costituzionale attuale, a differenza di altri sistemi, questo ruolo del capo dello Stato è frutto di prassi, più che di sistematica ed equilibrata disciplina. La seconda considerazione: è da lì che si deve partire.
Per tutte le ragioni che si sono sinora illustrate è evidente che, affinché tutte le manovre che si sono realizzate - per un totale di 320 miliardi di euro cumulati dal 2008 al 2014 (l’80 per cento dei quali realizzato dal governo Berlusconi, il restante 20 per cento dal governo Monti) - non siano divorate dai mercati e rese dunque inutili, la prima riforma strutturale da fare è quella dell’architettura costituzionale, dei motori della decisione e della credibilità futura. L’evoluzione della nostra storia politica ci indica una soluzione. I partiti da soli non riescono a disciplinarsi, è necessario che i cittadini possano investire qualcuno della specifica responsabilità democratica di mantenere il motore funzionante anche nel medio periodo. La storia del nostro parlamentarismo è molto simile, da questo punto di vista, a quella francese. Anche la soluzione può essere simile: il semi-presidenzialismo con elezione popolare e diretta del capo dello Stato. Che, inoltre sarebbe l’equilibrato contrappeso per l’improcrastinabile compimento del federalismo anche sul piano fiscale e dell’organizzazione parlamentare. L’altro fondamentale problema, quello della legge elettorale - sul quale volteggiano numerosi avvoltoi del maggioritario - può porsi solo nel momento in cui la scelta costituzionale fondamentale verrà affrontata e risolta.
Qualcuno potrebbe obbiettare che il cuore del problema della crisi dello spread non è l’Italia, ma l’Europa e che dunque è lì che la questione va risolta. Si tratta di una falsa alternativa. Proprio perché una parte considerevole della partita si gioca a livello sovranazionale è necessaria un’Italia forte che svolga appieno il proprio ruolo, memore del passato di Paese fondatore e capace di contribuire al progresso europeo rappresentando convintamente e credibilmente il proprio punto di vista e i propri interessi. L’attuale passaggio politico-istituzionale sarà tanto più utile quanto più esso sarà delimitato nel tempo, trovando uno sbocco in un presidenzialismo formalizzato. Quel che è certo è che lo stato di eccezione non potrà durare a lungo. È bene che cominciamo ad affrontare il problema con una riforma all’altezza della situazione. Perché le alternative sono molto peggiori.
La legislatura ha ancora davanti a sé una sufficiente finestra temporale per affrontare i nodi della doppia crisi di governance: quella europea e quella nazionale. L’agenda ce la dà come sempre l’Europa. Entro gennaio dovranno essere messi a punto gli accordi internazionali previsti dall’ultimo Consiglio europeo. Apriamo subito un dibattito parlamentare sulle riforme istituzionali e sulle posizioni che l’Italia deve assumere a livello sovranazionale. Il Parlamento può riacquistare, in questa fase, la centralità perduta da tempo. Divenendo l’arena del riformismo: presidenzialismo, architettura costituzionale (insieme al pareggio di bilancio) e doppia devoluzione, verso l’alto (l’Europa) e verso il basso (il federalismo).


In parallelo, come accadde in assemblea costituente, il governo dovrà farsi promotore delle riforme per lo sviluppo e la messa in sicurezza dei conti pubblici: liberalizzazioni, privatizzazioni, vendita del patrimonio e rigorosa spending review per riqualificare la spesa pubblica.
Basta con le manovre depressive, non possiamo continuare su questa strada. Facciamo in modo che questa fine di legislatura sia effettivamente costituente. Sarebbe la migliore e più strutturale risposta alla crisi.

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