di Alberto Moravia
La mattina presto, l'approdo alla spiaggia della Chiaiolella, a Procida, ha tutto l'incanto di quella verginità omerica che ormai, giornalisti e scrittori pretendono non poter trovare se non in fondo al Pacifico, in qualche remoto arcipelago di corallo.
Una luce severa si specchia dal cielo sereno; in cui il sole non è ancora spuntato, nel mare perfettamente calmo. La spiaggia è deserta, pochi pescatori accovacciati rammendano in silenzio le reti distese sulla sabbia. Scendo e mi guardo intorno. Procida non si vede, non si vedono case: soltanto una costa gialla, a picco su un arenile deserto. Sopra la costa nella luce che va imbiondendo, le vigne dalle foglie lussureggianti, alcuni pini sottili, qualche quercia. Il mare è disteso in una bonaccia bianca, oleosa con grandi tracce serpentine quasi diafane, simili a indolenti strade di luce che si dirigano verso l'orizzonte sereno.
Dietro la spiaggia, oltre un istmo di sabbia, si apre uno dei tanti porticcioli di Procida: un'insenatura rotonda, guardata da due promontori verdi, e in fondo, addossata alla costa, una fila di case. Sono le case per cui Procida è o dovrebbe essere famosa: specie di alveari dai colori teneri, scoperchiati e con le celle in piena luce. Le celle sono le terrazze ad arconi fittamente sovrapposte, con porte verdi in fondo alle terrazze, trecce di paprica rosse penzolanti dagli archi, panni di tutti i colori appesi a mezz'aria.
Disposte in cerchio intorno il porto, queste case rosa, gialle, azzurre e bianche sono tutte un po' sbilenche, un po' consunte, un po' diroccate; si pensa che il vento e il mare le abbiano corrose allo stesso modo della costa vulcanica che, a guisa di mensola, si sporge sopra di esse. Ma la mancanza di angoli acuti, quel confondersi delle loro tinte delicate e incantevoli ricordano pure i gelati di questi paesi. Anzi un solo gran gelato di sapori diversi in lenta liquefazione, coi buchi delle terrazze fatti col cucchiaio.
La barca esce dal porto, prende a costeggiare dirigendosi verso sud. È evidente l'origine vulcanica di Procida: tutte quelle insenature semicircolari, con le coste a strati ondulati, sono orli di vulcani sommersi. Talvolta un promontorio o un isolotto o una fila di scogli che affiorano sembrano completare il semicerchio e allora l'impressione di navigare nella bocca allagata di un vulcano si conferma. L'occhio scorre per il cerchio delle coste, completa i tratti mancanti e poi, macchinalmente si abbassa verso l'acqua trasparente sotto la barca, quasi temesse di vedervi affiorare i vortici bollenti e fumanti di un'eruzione.
Da un semicerchio vulcanico all'altro, da una punta all'altra, nella mattina serena, sul mare cangiante e liscio che ogni tanto riflette tanta luce da confondersi con il cielo, la barca giunge finalmente all'ultimo golfo, in vista alla rocca eccelsa del penitenziario, sotto la quale si sbriciola, come un teschio sforacchiato di occhiaie, la parte occidentale dell'abitato di Procida. Da lontano, la vista è senza dubbio orientale, di un oriente da Mille e una notte, che si stupisce di ritrovare così magicamente intatto. La corsa stessa della barca, nonostante il battere del motore, nel momento che appaiono l'abitato multicolore e la rocca che lo sovrasta, assume un aspetto leggendario; involontariamente guardo i miei compagni quasi aspettandomi di vederli vestiti di sete e di velluti, con veli e turbanti, adagiati sopra cuscini.
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Eppure questa è Procida, isola del golfo di Napoli, dalla bellezza ancora sconosciuta, nota soprattutto per il suo carcere. Le case, al solito, di cento colori pallidi e leggiadri, strette le une alle altre, con le facciate tutte terrazze, poggi e scale, guardano a una ripa su cui, tirata in secco sulla sabbia, si allinea una flotta di barche da pesca. L'occhio, come la barca si avvicina, sale dalla spiaggia alle case, ne contempla con stupore l'aspetto di rovina multicolore, segue poi certe linee ascendenti di strade a gradoni scavati nella roccia, si sofferma sul belvedere sotto il rettangolo giallo dell'opificio del carcere, si arrampica su per i contrafforti che inquadrano le rupi fino alle file di finestre della prigione, ascende all'ultima terrazza sormontata a sua volta da una torre di guardia e questa da una garitta, balza su una cupola di chiesa e finalmente, con sollievo, trova il cielo.
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Forse non è molto alta la rocca sulla quale si trova il penitenziario, ma a passarci sotto, con la barca che fila in libertà sul mare calmo, nella fresca mattina, si rimane sgomenti alla vista di quei precipizi di un giallo leonino su cui, a piombo, si rizzano gli ergastoli gremiti di finestre. D'istinto vien fatto di pensare a impossibili quanto romantiche evasioni, quasi per un timore anticipato di avere un giorno a trovarsi in condizione di doverle tentare. A quanto sembra, la prigione è composta di parti diverse aggiunte in epoche diverse: i carceri rettangolari a bugnati sono ottocenteschi, gli altri lisci e ritti, moderni; rovine brune di un castello medievale si alternano a case rosa e gialle, forse settecentesche; la cupola della chiesa sembra barocca.
Mi colpiscono alcune singolarità: un balcone con una tenda quasi elegante, a strisce; una curiosa torre quadrata dipinta a scacchi bianchi e neri; le bifore superstiti del castello; la massiccia rotonda di guardia con la feritoia per la mitragliatrice; la striatura nera che lasciano sulla roccia le acque impure del penitenziario cadendo a picco in mare davanti la tenebrosa imboccatura di una spelonca. La barca fila, e levando l'occhio a uno dei tanti fabbricati distinguo i prigionieri arrampicati sulle inferriate, come scimmie sui rami di un albero, che ci salutano con cenni delle mani. Al solito la prigione esercita una sua malinconica e ossessiva attrazione.
Intanto la barca ha aggirato la rocca, se ne allontana per evitare le scogliere affioranti che la circondano, sbuca dall'altra parte, in vista al porto principale di Procida. Il penitenziario scompare dietro i boschi che coronano in quel punto la costa e poi, con sollievo, vedo le case multicolori allineate lungo la banchina, la chiesa che sorge sul mare, le barche che si dondolano nell'acqua verde, le botteghe, i caffè con i giocatori di carte, le ragazze alle finestre ornate di fiori.
Ma è difficile dimenticare il penitenziario a Procida. Come entriamo nel porto, nello stesso momento attracca alla banchina il vaporetto che fa il servizio con Napoli. La radio di bordo canta a squarciagola 'O sole mio, i passeggeri scendono tranquillamente sulla banchina dove si raduna una piccola folla di curiosi e di monelli, è un arrivo come ne avvengono tanti, tutti i giorni, in tutti i porti del golfo di Napoli. Ma sulla banchina aspetta una macchina di una forma particolare, marrone: e si direbbe che la gente faccia il vuoto intorno la macchina. Ed ecco, per Procida, oltre ai pochi turisti, oltre ai cittadini che viaggiano per i loro affari, tre galeotti incatenati che vanno ad aggiungersi alla popolazione del penitenziario.
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Sono tra la folla che si incolonna sulla passerella, scendono con gli altri, ma a terra le guardie li circondano, li spingono verso la macchina. Intravedo i pantaloni di cotone a strisce, le lunghe catene che vanno dai polsi alle caviglie. Come salgono nella macchina, cerco di osservare le facce. Due hanno visi di contadini, semplici, indifferenti, senza espressione. Ma il terzo non ha il capo rasato, non porta l'uniforme, giunge direttamente dal tribunale che l'ha condannato. È un giovane coi capelli neri svolazzanti che finiscono in due lunghe basette romantiche. Indossa una camicia bianca, col collo aperto. Seduto nella macchina che tra poco lo rapirà verso il carcere, volge intorno gli occhi brillanti con un'espressione molto chiara di sfida, di curiosità, di falsa disinvoltura, di patetica volontà di affermazione personale. Poi solleva i polsi stretti dalla catena, porta goffamente una sigaretta alla bocca e fuma con avidità, sempre guardandosi intorno.
Ahimè, come è facile comprendere questa mimica, sempre la stessa, di fronte a destini sempre uguali.
A Procida, a quanto mi dicono, vengono rinchiusi soltanto criminali condannati a pene non inferiori ai vent'anni, dunque per delitti molto gravi. Eppure quei gesti suggeriscono piuttosto la spaventevole incombenza della lunga pena che la consapevolezza del crimine compiuto.«Le vie d'Italia», dicembre 1960
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