Il feroce generale che inventò il miracolo economico del Cile

Alberto Pasolini Zanelli

Augusto Pinochet è vissuto a lungo, ma non abbastanza per farsi dimenticare. Veniva di lontano. Nato durante la Prima guerra mondiale, entrato nell’esercito nel 1932 nei giorni in cui Hitler e Roosevelt stavano per salire al potere, portatovi egli stesso nel 1973, all’apice della Guerra Fredda, quando erano di moda i colpi di Stato «dell’ordine», ritiratosi all’avvento del «disgelo» mondiale, ha fatto in tempo a compiere una lunga ritirata: da dittatore a capo dell’esercito, a senatore a vita, a inquisito, ad accusato, a messo agli arresti domiciliari. È finito, proprio negli ultimi giorni della sua esistenza terrena, nei meccanismi di una giustizia che comunque non avrebbe potuto condannarlo, ma che non si sarebbe mai permessa di smettere di perseguirlo, una volta cominciato. Così la sua storia, che nel bene e nel male è stata quella di un dittatore importante, di un riformatore assolutista e di un generale della Guerra Fredda, si è impigliata nelle maglie della cronaca giudiziaria. E così Pinochet, ex dittatore, ex presidente, ex senatore a vita, ex tutto ed ex uomo del nostro tempo, è stato ricatturato alla fine, e con lui il Cile, dal Mito planetario. In sostanza egli è morto troppo tardi. Se gli fosse capitato prima, di lui si sarebbe occupato un Cile pacificato e, invece dello stress dei rinvii a giudizio, degli interrogatori impossibili e dei test medici umilianti sullo stato della sua mente, avrebbe avuto un modesto funerale da ex. I politici della democrazia restaurata a Santiago avrebbero preferito così, ma non hanno potuto impedire che le cose andassero altrimenti. Gli ultimi anni di esistenza di un dittatore, ferocemente nazionalista e che dunque aveva guardato sempre all’interno, sono stati sconvolti da fumosi tribunali «internazionali» e dalla iperattività di un ambizioso giudice spagnolo e alla fine sono riusciti a prevalere sui governanti cileni; che per difendere la sovranità nazionale finirono per far proprio un procedimento che andava contro la loro volontà e la stessa Costituzione democratica. Il Mito planetario, insomma, è arrivato in tempo a mordere Pinochet e la sua patria quando l’uno e l’altra desideravano soprattutto il silenzio.
Invece hanno ributtato i cileni nelle memorie degli anni ’70, allorché nel loro remoto Paese si combatté una delle battaglie della Guerra Fredda. Un socialista «rivoluzionario» arrivò al potere con elezioni democratiche e con le idee confuse. Salvador Allende fu preso nelle spire di un gioco più grande di lui. Divenne un simbolo. Da vivo sviluppò l’amicizia inutile e pericolosa con Fidel Castro, da morto fu invocato da Breznev per giustificare l’invasione dell’Afghanistan e preso a modello da Berlinguer come il motivo per cui in Italia bisognava attuare il «Compromesso storico». La realtà cilena era più modesta. Allende fu eletto, nel 1970, con poco più di un terzo dei voti, grazie alla divisione del suffragio moderato e al dispetto suicida che i democristiani vollero fare al candidato della destra. Lo issarono al potere e subito cominciarono a combatterlo, assieme agli interessi economici e con il fattivo incoraggiamento della Cia e dell’America tutta, inevitabile al colmo della Guerra Fredda. Un presidente della democrazia restaurata, Lagos, socialista come Allende, disse: «Nella distruzione della democrazia cilena negli anni ’70 non ci sono innocenti. Mettemmo gli interessi del partito davanti a quelli del Paese, incoraggiammo i contadini ad occupare le terre, gli operai ad impadronirsi delle fabbriche, i soldati ad ammutinarsi». Il risultato fu il tracollo dell’economia e dell’ordine e il 22 agosto del ’73 la Camera approvò, su iniziativa degli stessi democristiani, una risoluzione di denuncia degli «attentati allo stato di diritto e ai diritti umani compiuti sistematicamente dal governo marxista», dichiarava Allende «fuori della Costituzione» e faceva appello alle forze armate perché «ristabilissero la legalità».
I militari risposero venti giorni dopo. Avevano un nuovo capo, Augusto Pinochet, che era succeduto a un simpatizzante della sinistra e che «obbedì» con brutale energia. Carri armati ed aerei assaltarono il Palazzo presidenziale. Allende si uccise infilandosi in bocca un mitra che gli aveva regalato Castro e contro la sinistra si scatenò la repressione. Dura, sanguinosa, rapida: un blitz che fece un migliaio di vittime. Uno dei suoi tanti episodi fu la «Carovana della morte», il «viaggio» di un commando dell’esercito attraverso il Paese alla ricerca di oppositori giudicati pericolosi; che vennero rapiti e poi «eliminati». Una vicenda che è tornata fuori 30 anni dopo ed è stata alla base di tutte le iniziative legali contro Pinochet. Per il golpe in sé, per la repressione, per la dittatura esercitata per quasi tre lustri egli non poteva infatti essere processato: era coperto, assieme ai suoi collaboratori, da una amnistia che si chiamò «Riconciliazione nazionale» e che era parte integrante del baratto con cui il dittatore acconsentì a ritirarsi dal potere consentendo la restaurazione democratica, ma mantenendosi in mano dei pegni: il comando dell’esercito finché lo avesse voluto, la poltrona di senatore a vita successivamente, e, soprattutto, l’impunità. La ottenne non solo nell’interesse della pacificazione, ma anche perché i governi democratici fecero propri quasi tutti i programmi economici di Pinochet, che erano stati alla base del «miracolo cileno» che fece del Paese il numero uno dell’America Latina all’insegna del liberismo integrale. Non fu Pinochet a scrivere quelle leggi. Egli riconobbe subito la propria incompetenza in queste faccende, ma ebbe l’umiltà e il buonsenso di appaltare la riforma ad altri: ai giovani economisti cileni che avevano studiato all’università di Chicago sotto la guida di Milton Friedman. Il dittatore diede loro carta bianca e gli offrì un’occasione unica per i loro esperimenti. Contro tutte le tradizioni dell’America Latina, il Cile si «aprì» alla circolazione quasi incontrollata dei capitali stranieri. La previdenza sociale e il sistema pensionistico furono radicalmente privatizzati. Un Paese costretto a dimenticarsi della politica e che la dittatura preservava dai due maggiori ostacoli a una riforma all’insegna dell’austerity: i sindacati, cioè gli scioperi, e le elezioni, in cui i partiti inevitabilmente fanno promesse. Legato al tavolo operatorio e anestetizzato, il Cile guarì, sia pure con i costi umani inimmaginabili. Era stabile quando passò, molto gradualmente, negli anni ’90, dalla dittatura alla democrazia.
Pinochet non aveva in mano solo le armi per imporre le sue condizioni nel compromesso: contava anche sui favori di quasi metà dei cileni e addirittura della maggioranza delle cilene, che non avevano dimenticato il caos, la miseria, le code davanti ai negozi vuoti che avevano contrassegnato gli anni di Allende e le avevano spinte in piazza nelle famose «marce delle pentole vuote» su cui scandivano slogan con risonanti cucchiai. L’accordo non fu dunque così arduo come si può pensare oggi e tanto meno fu un’eccezione: transizioni con amnistia si ebbero in quasi tutti i Paesi che uscivano dalle dittature perché erano il migliore incentivo ai dittatori per cedere il potere senza timori. Accadde con i militari dell’America Latina e, più tardi, con i regimi comunisti dell’Europa orientale. Ma in alcuni Paesi i patti stipulati si sono mostrati troppo difficili da osservare. Il Cile si è dovuto acconciare a permettere una serie di procedimenti contro Pinochet soprattutto per «salvare la faccia» all’estero.

Non so quale rispetto Augusto Pinochet ebbe durante i lunghi anni di potere assoluto delle leggi e dei giudici. È certo che il vegliardo che ebbe a che fare con loro negli ultimissimi anni non li capì. Non avrebbe potuto anche se il suo cervello non fosse stato «attutito» dall’età.

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