Non era certo un personaggio da fiaba, Ferdinand Philipp Grimm. O meglio, fosse finito in una delle storie raccolte dai suoi due celebri fratelli, sarebbe comparso come «il fannullone», o il «fratello scapestrato», o «l'inaffidabile». Insomma, la pecora nera in una famiglia che, nella Germania tra fine Settecento e inizio Ottocento, era praticamente perfetta: due genitori, Dorothea Zimmer e Philipp Wilhelm Grimm, che fra il 1783 e il 1794 ebbero nove figli, di cui tre morirono in culla, cinque ebbero successo in vario modo e, comunque, portarono a compimento l'ideale religioso e borghese dell'impegno e del buoncostume e uno, invece... Quell'uno, Ferdinand Philipp, nacque nel 1788, e tutta la famiglia cercò di cancellarlo dagli annali di casa Grimm, anche dopo la sua morte, avvenuta in solitudine, nel 1845.
Più di tutti, furono proprio i due fratelli maggiori, Jacob e Wilhelm, a detestarlo e a ostracizzarlo. Tanto da definirlo «perdigiorno» e da invocare l'uso della «violenza» per raddrizzarlo, nelle lettere che si scambiavano fra loro, preoccupati per la sua sorte ma, anche, per il buon nome della famiglia, e del loro «marchio»: infatti, l'irriverente Ferdinand aveva osato calpestare il loro terreno, le fiabe, di cui si occupò, con meno successo dei due fratelli ma con un suo innegabile genio. In effetti, il quintogenito sembrava avere tutte le carte in regola per seguire le orme dei «superuomini» Jacob e Wilhelm: grande lettore fin da piccolo, amava Goethe e Jean Paul e soprattutto Heinrich von Kleist, di cui, in seguito, curò parte dell'edizione delle opere postume, ai tempi in cui lavorò presso l'editore Georg Reimer a Berlino (che pubblicava anche Jean Paul, Schleiermacher, Schlegel, E.T.A. Hoffmann e Novalis...) e, sempre fin da piccolo, aveva deciso che sarebbe diventato uno scrittore. Dopo il liceo a Kassel iniziò a lavorare come copista e redattore editoriale per progetti di antologie di fiabe. Perché sangue Grimm non mente. E così copiò racconti del '500 e del '600 per l'antologia di Von Arnim e Brentano, Il corno magico del fanciullo, e per i fratelli, che stavano raccogliendo le loro Fiabe del focolare. Fu lui, per esempio, a copiare una delle prime versioni di Biancaneve, e scrisse La camicina da morto e la prima stesura di La morte della gallinella. Tutto bene, quindi? Niente affatto. Jacob e Wilhelm mal tolleravano le sue perdite di tempo, i vagabondaggi, lo sperpero di denaro (e la continua richiesta dello stesso), il dormire fino a tardi, le intemperanze e, soprattutto, la sua «vita invertita» e «innaturale», come la definirono dopo la confessione che Ferdinand fece alla famiglia il giorno di Natale del 1810. L'ipocrisia non consentiva di esplicitare il contenuto di questa confessione nelle lettere, ma si pensa a una dichiarazione di omosessualità. Che fu subito censurata.
A quel punto, il fratello Ludwig, pittore, lo ospitò per un periodo; poi ci furono l'impiego presso Georg Reimer a Berlino, la frequentazione di intellettuali come Tieck e Heine e il licenziamento, che lo lasciò senza un soldo. Anche se continuò a curare a sue spese la tomba di Von Kleist, abbandonata. Soprattutto, lasciata la famiglia, Ferdinand aveva iniziato a scrivere: antologie di fiabe, come le Leggende e fiabe popolari tedesche e straniere, una raccolta di centoventitré storie, e le Leggende popolari tedesche, concepite, in modo molto originale per l'epoca, come una «guida fiabesca» per le contrade della Germania; il romanzo a puntate Zia Henriette, una parodia della sua famiglia; un tentativo di romanzo fantastico. Uscì postumo Fiabe di monti e castelli, una raccolta di sette racconti lunghi, l'unica ad avere avuto un po' di successo, anche di critica. Oggi alcune di queste fiabe, e anche altre tratte dalle carte postume ritrovate da Jacob, si possono leggere in La montagna dei gatti, prima edizione italiana delle opere di Ferdinand Grimm, proposta da L'orma (pagg. 132, euro 18) con una bellissima introduzione di Marco Federici Solari.
Un primo, fiabesco viaggio nel mondo del «terzo Grimm», fra nani, boschi, rupi, principesse, gatte, re e... fratelli in rotta fra loro. Perché una fiaba, anche senza lieto fine, racconta sempre la realtà, ben oltre la fantasia.
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