«Io mi chiedo sempre per quale motivo la musica della mia poesia risulti così estranea alle vostre orecchie. Perché sono tanti quelli che non possono digerirla agevolmente? Forse perché mi accusano di contribuire con i miei versi alla diffusione di dissolutezza e corruzione? Forse a una donna non è permesso di comunicare in poesia la verità del proprio sentire rispetto a qualsiasi oggetto di desiderio?» Forugh Farrokhzad scriveva queste parole nel 1955, in calce a Prigioniera, la prima delle sue raccolte poetiche, in un Iran paradossalmente molto più libero di quello odierno. Come immaginare che oggi gli ayatollah possano «digerire», come scriveva lei, versi come quelli di Dissoluta: «Lasciami perdere: io spezzo cuori/ sono incostante, debole, peccatrice,/ ho un cuore pazzo in fondo al petto/ e cento voglie dentro al cuore»? Sempre in quella postilla, la poetessa notava che la libertà di una donna di esprimersi «in Occidente è ormai una questione obsoleta, ma qui in Iran tutto questo suscita ancora stupore e avversione». Parole ancora più cariche di verità se riferite all'Iran del presente, dove la lotta delle donne per la libertà incarna quella di un intero Paese contro la dittatura. Anche per questo, Io parlo dai confini della notte è una pubblicazione importante: con questa raccolta, Bompiani porta in Italia «Tutte le poesie» dell'autrice (nata a Teheran nel 1934 e morta nel 1967 in un incidente d'auto) che, in soli trentadue anni di vita, ha segnato la letteratura persiana. Si tratta di una antologia unica nel suo genere perché, per la prima volta, raccoglie l'intera opera di Farrokhzad sia in traduzione, sia in originale, grazie alla cura di Domenico Ingenito, professore di Studi iraniani e di Letteratura persiana premoderna all'Università della California a Los Angeles.
Professor Ingenito, perché Forugh Farrokhzad è così importante?
«Perché è la prima vera voce femminile di poesia nella tradizione letteraria iraniana. Il suo è un ribaltamento: il corpo femminile si fa sguardo sul mondo e sul corpo maschile, abbandonando la retorica dell'amore alla greca, tipica dei classici persiani, e superando l'idealizzazione del desiderio. C'è una ricerca dell'esperienza attraverso il corpo e lo sguardo, c'è la dignità dell'essere donna e di parlare attraverso la voce del proprio corpo».
Come si proponeva ai lettori?
«Quando uscì la sua prima poesia, Peccato, nell'introduzione viene definita la poetessa spudorata: probabilmente scelse lei stessa queste parole per la sua operazione poetica. C'è una sua fotografia celebre in cui sorride, quasi a prendere in giro i lettori, che sarebbero rimasti sconvolti dal tono esplicito, dal testo, dalle idee di peccato e di pentimento che si alternano in modo molto teatrale... Tutto ciò la rende un personaggio unico nel panorama degli anni Cinquanta, e anche tuttora. Si è detto che, dopo di lei, il modernismo poetico iraniano sia finito».
Era rivoluzionaria?
«Sì, perché scardinava i canoni prestabiliti. Non c'erano altri poeti, o poetesse, che riuscissero a esprimersi con quella libertà, quella sfrontatezza e quel rigore allo stesso tempo: il suo è stato un esperimento senza seguito».
Com'era l'Iran allora?
«Era un Paese in crescita vertiginosa, che guardava all'Occidente ed era alla ricerca di una modernizzazione forte. Il problema non veniva dalla religione, bensì dalla cultura tradizionale e patriarcale: un tipo di ribellione come quella di Farrokhzad non trovava spazio in una cultura in cui le donne avevano la libertà, purché stessero buone e fossero madri, figlie, sorelle e mogli...»
Che reazione ci fu?
«Meraviglia e stupore. Fu criticata sia per le immagini forti, erotiche, sia per lo sperimentalismo: la chiamavano la ragazzina, c'era un atteggiamento di critica costante e di paternalismo nei suoi confronti. Quando i suoi versi iniziarono a circolare ci fu una rottura col padre; poi le fu negato l'accesso al figlio, si separò dal marito, ebbe una crisi nervosa, tentò il suicidio e fu ricoverata in una clinica, dove subì anche l'elettrochoc».
Pagò la libertà a caro prezzo?
«Oggi c'è una repressione frontale, assoluta e religiosa; allora la repressione era un fenomeno più complesso: c'erano degli spazi di libertà per una poetessa come lei, ma le conseguenze psicologiche furono pesanti. Le toccò combattere su più fronti e non ottenne mai una vera indipendenza economica».
Era tormentata?
«Bruciò le prime poesie, poi le riprese per pubblicarle: alternava ripensamenti, autoflagellazione pubblica e riscoperta del valore della propria opera, senza mai fermarsi. Quando morì, nel '67, aveva trentadue anni: quindi parliamo di dieci anni in cui è successo tutto questo, inclusi i viaggi in Europa e, dal '58, il lavoro per il cinema, con la produzione di documentari per Ebrahim Golestan».
E adesso si può leggere?
«In Iran è possibile acquistare le versioni censurate delle sue poesie. È molto amata e ampiamente letta, sia dai giovani, sia da quelli della sua generazione, e anche dai conservatori, ma si cerca di non parlare di lei e della sua poesia in pubblico. A causa delle censura non è mai uscita un'edizione critica della sua opera: io ho cercato di ricostruire le edizioni originali, mostrando come lei stessa sia intervenuta a fare numerose modifiche. Questo è un testo che gli iraniani non hanno mai potuto consultare, fino a oggi».
Oggi sarebbe intollerabile come figura?
«Assolutamente. Non è demonizzata pubblicamente, ma la sua presenza deve rimanere sotto controllo».
Questa pubblicazione è anche un messaggio?
«Per me è un atto politico, un dono da offrire alla cultura iraniana e ai lettori. Sì, è un messaggio, spero forte, per contribuire alla riscoperta della dignità femminile nella cultura persiana di oggi».
Però, nonostante le sue battaglie, Farrokhzad non amava la distinzione di genere nell'arte.
«Questa era la sua posizione, quando le veniva chiesto del valore della sua poesia come donna. Aveva avuto un interesse iniziale nell'affermare il valore della propria femminilità, in modo quasi militante, ma poi si era progressivamente allontanata da quell'impegno: voleva essere considerata come poeta, più che come poetessa».
Prese le distanze?
«All'inizio era molto interessata alle questioni dei diritti, del genere e della dignità della donna, ma poi decise di voler essere presa seriamente solo per la sua poesia: voleva essere letta letterariamente, non biologicamente. È un discorso ricco di contraddizioni: oggi parlare di genere nella sua poesia è più pertinente di quanto lo fosse anni fa».
Vale anche per il cinema?
«La sua opera più importante è La casa è nera, un docufilm girato in un lebbrosario nel Nord-Ovest dell'Iran.
È un'opera lirica e, anche qui, emerge come lei fosse sempre interessata alla complessità di qualunque discorso: il suo non era mai un impegno esplicito, anche quando criticava il regime dello Scià. La sua poesia e il suo cinema non sono uno slogan: sono una meditazione, umanistica, sul divenire dell'umano».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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