Il mondo in guerra sembra distante quando si entra nel magico quadrilatero della moda che circonda il teatro alla Scala. Ragli di guerra che diventano rumori fuori nel ventiquattresimo melodramma di Verdi che ha aperto la stagione della Scala, la Forza del Destino. Un'opera che gronda di avvenimenti sanguinari (tre omicidi e un atto, il terzo, che si svolge durante la guerra). Tranquillità esteriore rispetto alle scene di tumulto di anni passati, ottenute estendendo il perimetro di sicurezza, un po' come i romani quando alzarono il Vallo di Antonino Pio a nord di quello di Adriano, per escludere i barbari caledoni dalla Britannia.
Dopo l'Inno di Mameli e la potente sinfonia, finalmente abbiamo visto l'annunciato palcoscenico rotante, idea madre della messa in scena come figurazione del destino contrario alla felicità umana. I quadri immaginati dalla scenografa Federica Parolini scorrono nella prima parte con aderenza drammaturgica al libretto, tanto rara in tempi di teatro di regia fantasioso, un fatto che solleverà critiche sicure per non aver inventato qualche cosa di cui discutere. Quasi intimorito dall'adesione al libretto, il regista Leo Muscato è partito nel terzo atto per il Carso di Scipio Slataper, cioè ambientando l'azione nelle trincee della Prima guerra mondiale: idea straniante ma con una sua efficacia. Il quarto era proiettato nelle macerie contemporanee: Striscia di Gaza, Ucraina, c'è solo l'imbarazzo della scelta.
Al suo primo apparire Anna Netrebko (Leonora di Vargas) ha messo subito in mostra tutte le sue non poche e ben note qualità. Era attesa in tre scene (l'infida aria d'apertura, desolata e dolente, Me pellegrina e orfana, l'ardente invocazione Madre pietosa Vergine e la sublime preghiera, Vergine degli angeli), impegnative, ma via via sempre più calzanti alla qualità dei suoi suoni corposi e carnali. Scene nelle quali il pubblico ha applaudito la voce piena e calda nel registro centrale e acuto della sua beniamina, voce ideale soprattutto nel Pace, mio Dio finale, affrontando con pieno successo il pericolosissimo duetto col Padre Guardiano (che preoccupava una voce come quella di Renata Tebaldi), forse il vertice dell'opera. Il suo tallone d'Achille è la comprensione della parola che non trova sfogo in una dizione articolata, ma vi supplisce con l'intensità fonica, quando, come in questa occasione, non eccede coi suoni gutturali e di petto.
Il Padre guardiano di Alexander Vinogradov non aveva forse il calibro autorevole di un Superiore, come direbbe frate Melitone, ma canta con preciso senso dello stile e della parte, due fattori che attenuano la timidezza ieratica.
Accanto alla Netrebko, giganteggia Ludovic Tézier, una voce, meglio una personalità vocale completa per la parte dell'implacabile assetato di vendetta Don Carlo di Vargas. Tézier è un artista che nella chiave di baritono non sentivamo così autorevole, soprattutto alle prime scaligere, da gran tempo e il pubblico lo ha ovazionato dopo Urna fatal. Il tenore Brian Jagde (Alvaro), entrato teso e nervoso, affrettava i tempi nel primo duetto, anche se non mascherava la stoffa della voce, votata all'accento eroico, all'emissione di suoni fissi, spesso selvatici. Era atteso dalla sua grande scena e aria ad inizio del terzo atto, dove per ingentilire l'emissione ha rallentato il tempo, senza per altro raggiungere la commozione richiesta dal racconto e dal cantabile (O tu che in seno agli angeli). Efficace nell'espressione caricata ma senza troppo Marco Filippo Romano (Melitone). Tutti i ruoli erano ben coperti, come quello di Preziosilla (Vasilisa Berzhanskaya), sicura negli acuti e un po' fattucchieresca negli atteggiamenti; menzione speciale per Huanghong Li nella parte dell'Alcalde, come per lo sperimentato Carlo Bosi (Trabuco).
Abbiamo trovato il Coro della Scala istruito da Alberto Malazzi nella miglior forma da quando ha ricevuto il testimone da Bruno Casoni, variegato e orante nell'osteria, potente nella Vestizione, ficcante nella Ronda, preciso nel Rataplan e con il giusto carattere nel semiserio della distribuzione della minestra ai poveri.
Successo finale trionfale e ben meritato per Riccardo Chailly che ha diretto con amore verdiano, e per una compagnia di canto sontuosa, e consensi decisi anche alla messa in scena. Qualche buu per Netrebko e Jagde.
«Netrebko buuata perché russa, mi spiace quando uno spettacolo viene preso in ostaggio, come Netrebko ce n'è una per generazione», ha detto il sovrintendente Meyer. E la diretta interessata chiosa: «Nessun buu dopo le mie arie...».
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