Garibaldi scriveva romanzi per essere ascoltato dalle donne

Pubblicato il XIV volume dell'epistolario (1870/71). Il generale, già autoesiliato a Caprera, spiega la filosofia editoriale delle sue sue opere narrative: racconti di fantasia per un pubblico che non ama la storia. E boccia Marx e Bakunin: con loro niente socialismo

Garibaldi scriveva romanzi per essere ascoltato dalle donne

Se scrivo romanzi «è per essere ascoltato dalle donne, che poco si curano di storia», scrive Giuseppe Garibaldi in una delle lettere raccolte nel XIV volume del suo Epistolario (1 gennaio 1870 - 14 febbraio 1871), appena pubblicato a cura di Emma Moscati, e edito dall'Istituto per la storia del Risorgimento italiano.
È una delle rarissime volte in cui l'eroe dei due mondi parla della sua produzione narrativa, nella quale non a caso mette sempre in primo piano personaggi femminili positivi e con la quale ebbe grande successo, specie nel Regno Unito. Tanto che leggiamo una discussione colla sua traduttrice inglese, che gli ha modificato un titolo.
Quello che emerge da questo volume è un Garibaldi ritirato a Caprera, tutto preso dalla cura della campagna e degli animali e dagli affetti famigliari. Tanto avulso dalla vita pubblica italiana da ignorare quasi del tutto, e siamo nel 1870, la presa di Roma, con i bersaglieri di La Marmora che realizzano un sogno che lui aveva coltivato da quando aveva l'età della ragione. Ma il libro appena pubblicato mostra anche che Garibaldi era pronto, anche se assai menomato dai dolori reumatici, a tornare a combattere in Francia, paese natale amato e odiato (all'anagrafe di Nizza, dove nacque nel 1807, quando la città apparteneva all'Impero napoleonico, è del resto registrato come Josefh), in nome della repubblica e contro l'occupazione prussiana, con un esercito di volontari.
Il volume si chiude col ritorno di Garbaldi a Caprera dopo la campagna dei Vosgi, che ne è il tema principale e per la quale parte pur con dolori reumatici che, come sappiamo, gli rendono difficile muoversi, per non dire salire a cavallo. Ma si trattava di combattere in difesa della repubblica contro i tedeschi, e quindi si adattò a mettere insieme quello che definisce «l'esercito più stravagante che abbia mai avuto». Una frase che fa riflettere, se pensiamo agli eserciti, quasi sempre molto improvvisati, da lui comandati nella sua vita, a partire dai Mille.
Questa volta, per fermare i prussiani, accorrono al suo richiamo volontari da tutta Europa e persino dall'Egitto (a dirci quale fosse allora la fama di Garibaldi), che, come accadrà per la guerra di Spagna, sono partigiani pronti a combattere in nome della libertà e per i quali il generale teorizza una sorta di guerriglia, puntando molto su una formazione di franchi tiratori, affidata al figlio Menotti, cecchini che hanno il compito di disturbare e spaventare il nemico, colpendolo a tradimento (come poi accadrà in tutte le guerre dei nostri giorni, dalla Bosnia in poi).
Nelle lettere che scrive a casa, sempre ricordandosi delle figlie, per le quali dice all'ultima moglie di aver comprato dolciumi e «pupazze» (bamboline), non dice come va la campagna dei Vosgi, vittorie e successi, ma racconta la sua vita quotidiana, parla della logistica, teorizza il tipo di combattimenti, si preoccupa dei rapporti dei soldati con la popolazione, del cui supporto hanno essenziale bisogno.
Dalle lettere si evince anche che non è mai esistito un Garibaldi ideologo o «testimonial» socialista: il suo socialismo non ha nulla di teorico, se c'è è nei fatti.

E contrasta con quello allora professato da Marx a Bakunin, che infatti di lui parlano ironicamente, visto che difende la proprietà privata e vede nella famiglia il nucleo centrale della società. Ma non basta, visto che arriva scrivere, riferito al filosofo di Treviri e dell'agitatore russo «Se il socialismo si dovesse fare con loro, non lo avremo mai».

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