Il gelo astratto di Guarienti che cristallizza ogni dolore

L'artista ha attraversato il realismo inquieto approdando a forme pure cariche di significato

Il gelo astratto di Guarienti che cristallizza ogni dolore

Tra gli artisti contemporanei di cui mi sono occupato ce ne sono alcuni straordinari per qualità, per capacità tecnica, per grande evidenza visiva, fautori di un realismo basato sul pensiero, su un concetto astratto che porta nell'immagine come la sensazione di un altrove: non quindi un realismo meccanico, ripetitivo, mimetico, bensì un realismo essenziale. Alcuni più di altri mi sono sembrati in sintonia con la mia sensibilità, e sono artisti figurativi e artisti astratti, astratti più che per forme, per pensiero, per lucidità, per astrazione delle idee: pittori che potremmo chiamare neo-metafisici.

Ricorderò un grande inventore di fantasie senza limiti: Gianfilippo Usellini, artista superbo per immaginazione, e ,al suo fianco, Stanislao Lepri, artista più perverso, più complicato, più duttile. Grande fortuna ha avuto , ma fuori dall'Italia, Leonor Fini, proprio perché poteva rientrare nel circuito dei surrealisti in modo organico, ordinario; non era isolata , come erano invece in Italia gli Usellini, i Lepri o un altro pittore, Romano Parmeggiani (fratello del più fortunato Tancredi), anch'egli al limite tra realismo e surrealismo.

Tra loro si inserisce anche un personaggio avventuroso, colto, misterioso, nato a San Pietroburgo: Eugène Berman, amico di Savinio, surrealista di sensibilità estremamente rarefatta e letteraria, e riferimento essenziale per la formazione di Domenico Gnoli, il quale avendo un padre storico dell'arte, respirava da una parte tutta l'arte del Rinascimento, e dall'altra era curioso di quei maestri moderni che recuperavano la sensibilità del Rinascimento nella propria visione moderna: de Chirico, Gentilini, Clerici, Berman. Per Gnoli la sintesi di queste due dimensioni determina un effetto folgorante, una deflagrazione che è quella che lo porta alle sue immagini assolute, come lapidi, quadri totalmente metafisici, di una metafisica moderna.

Continuando a cercare fra surrealismo e metafisica ,ho incrociato anche artisti declinanti verso l'illustrazione, come Gaetano Pompa, che rappresentano versi e pensieri di Ezra Pound in immagini inventate, soprattutto sculture, nel tentativo di ricostruire il mondo antico, il mondo romano. Poeti straordinari, poeti disperati, poeti gentili come Gustavo Foppiani, che a Piacenza sogna un surrealismo padano, in una dimensione lontana da ogni realtà, felice all'apparenza ma turbata dall'apparizione di demoni, di figure minacciose, esattamente come i mostri nella opera estrema di Domenico Gnoli: apparizioni dentro quegli armadi o su quei sedili d'automobile che si popolano di figure misteriose e inquietanti.

Questo percorso tra i principali artisti attivi negli anni Sessanta e Settanta, per lungo tempo emarginati e che hanno tenacemente, ostinatamente continuato a dipingere anche nella assoluta indifferenza della critica, culmina oggi nella complessa ricerca di un sopravvissuto: Carlo Guarienti.

Guarienti è un pittore difficile, tentato da mille stimoli, che esordisce, a fianco di Sciltian e di Annigoni, nel 1949, aderendo al gruppo de «I pittori moderni della realtà».

Realista inquieto, però, con un impulso alla dimensione non reale, sognata, surreale. Il suo momento più espressivo è comunque negli anni Settanta, Ottanta, quando diventa pittore di geometrie, geometrie mentali, che sono anche solidi. Il cubo, la sfera, la piramide, ma con riferimento sempre a una realtà sensibile concreta, un sogno che non è mai indistinto, confuso con elementi di mostruosità che contraddicano l'esperienza razionale. Nella sua vicenda umana era intervenuta una tragedia, la morte di una figlia, e la sua opera, che soprattutto nella fase surrealista era stata articolata con figurazioni magiche e fantasie a popolare spazi rigorosi, neo-rinascimentali e comunque con un richiamo costante alla grande tradizione pittorica italiana, improvvisamente si disanima: non vi appaiono più figure, esseri umani, corpi, giovinette, santi, bensì solidi, linee, numeri, segnali stradali forse per un richiamo alla Pop Art, e quindi alla contemporaneità che sembra entrare in questi spazi algidi.

Insomma un gelo, una freddezza, una lucidità che sono il segnale di un dolore che non si può riparare. Nelle sue opere successive si sentirà rinascere una sensazione di vita, un alito, una forza che libera l'immaginazione di Guarienti da questa ossessione geometrica, da questa freddezza; piccole vedute di Roma, vedute di Castel Sant'Angelo in una luce gelata, notturna, facciate di chiese, richiami a un immagine visibile, esterna della città, che fanno pensare a una ripresa di vitalità. Ma nelle sue ultime opere sembra che una polvere o un velo scenda su nature morte, geometrie, solidi geometrici, perfino sulla riapparizione improvvisa dell'essere umano, lui stesso nudo: il pittore ossessivamente si ritrae decomposto, e con una pittura rugginosa, una superficie che vela il colore fino a farlo diventare una notte senza fine, senza possibilità di penetrazione neanche dello sguardo: una dimensione essenziale, totalmente purificata, di puro pensiero, pittura puramente mentale. Spazi inabitati, con riferimenti e memorie alla pittura di Morandi, oppure, quando abitati da una presenza, che in certi casi è appunto la sua, è come se l'uomo fosse terra, minerale, una materia neppure vegetale, come se il suo modo di vedere il mondo fosse filtrato da questa condizione di totale annichilimento in cui però c'è una luce assoluta, essenziale, come la luce dell'aldilà, il pensiero di un idea che è più forte della realtà e che informa di sé la realtà. Come se queste fossero opere terminali, la fine di un ciclo iniziato con tanta elaborazione, tanta fantasia, tanta varietà per poi ridursi a questo nulla in cui l'unica vita della pittura è la sua materia.

Pensando a queste opere, guardandole in questi mesi, non sono riuscito a trovare un riferimento più vivido alla esperienza dell'ultimo Guarienti di quello che da molti anni stava nella mia mente; ed evidentemente era la guida a questa attenzione per la pittura metafisica, prima Gnoli e poi Guarienti: una particolare attenzione, una particolare ammirazione per la poesia filosofica, la poesia di pensiero. Quando a scuola leggevamo la Divina Commedia, io ero più attratto dal Paradiso che dall'Inferno, dall'atmosfera e dagli ambienti algidi, freddi, distanti del Paradiso che dalla rappresentazione realistica, vivida, affocata dell'Inferno. Tra i poeti che io sento vicini al Dante del Paradiso c'era Juan Ramon Jiménez, quasi un Pascoli spagnolo, attento alla dimensione dei sentimenti, delle emozioni, e i cui versi rappresentano l'equivalente poetico dei quadri estremi di Guarienti, ossia la condizione del ricordo, di una vita che mentre è vissuta è già passata, di un'essenza dei sentimenti che è più forte dei sentimenti, in una dimensione che in qualche modo viene a purificare, a distillare l'emotività, e quindi a distanziarla: esattamente quello che la pittura metafisica aveva voluto rappresentare ai propri inizi nella ricerca di de Chirico e che oggi ne chiude il ciclo in queste opere di Guarienti.

Ecco dunque i versi di Jiménez, tratti dalla raccolta. Animale di fondo, edita da Sansoni con traduzione di Rinaldo Froldi: «Nel ricordo tu sei cosi come eri./ La mia coscienza, già era questa coscienza,/ ma io ero triste, sempre triste,/ perché la mia presenza ancora non era simile/ a questa finale coscienza./ Tra quei gerani, sotto quel limone,/ presso a quel pozzo, con quella bambina,/ la tua luce era là, desiderante dio,/ tu eri al mio lato,/ tu, dio desiderato,/ che non eri però, in me, ancora entrato./ Il sole, l'azzurro, l'oro erano,/ come la luna e gli astri,/ lo scintillare tuo, la colorazione tua piena,/ però coglierti non potevo con la tua essenza,/ l'essenza mi sfuggiva (la farfalla cosi sfugge alla forma)/ perché la forma stava in me/ ed io l'abbandonavo altro cercando;/ tanto, tanto fedele che io l'aveva / con me, che non pareami ciò ch'ella era./ E oggi, così, senza io saper perché,/ l'ho intera, intera.

/ Non so che giorno fu né con che luce/ venne a un giardino, forse, casa, mare, montagna,/ e vidi ch'era il nome mio senza il mio nome, senza la mia ombra, il mio nome,/ il nome che io ebbi prima d'essere/ occulto in codesto essere che mi stancava,/ perché io non era quest'essere che oggi ho fissato/ (che potei non fissare)/ per il futuro tutto, illuminato,/ illuminante,/ desiderato dio e desiderante».

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