Scegliere le parole giuste per un «pezzo», azzeccare il giro di frase, infilare l'aggettivo che si sposa meglio all'idea che vuoi dare al lettore... è un po' come ordinare le portate migliori del ristorante in cui ti trovi, abbinare il piatto al bicchiere, trovare l'equilibrio fra un primo e i secondi. È sempre questione di stile. C'è chi non sa cos'è, chi lo acquisisce col tempo, chi se lo inventa. E poi c'è Gianni Brera, che l'aveva per dono naturale. Principe della zolla, si dice. E re della scrittura e imperatore delle cucine. Il «mangiarebere», per lui, era importante tanto quanto (o più?) di una articolessa per la «prima».
Prima Gianni Brera ce lo ricordiamo per il giornalismo sportivo, poi per gli epici resoconti di pacciada e di bottiglia. In realtà Gioânnbrerafucarlo cambiò sì il modo di raccontare il calcio, il ciclismo, l'atletica. Ma anche quello di stare a tavola. E iniziò presto. Prima che ventenne.
Del '19 - quest'anno ne compirebbe cento: auguri - Gianni Brera cominciò a scrivere per i giornali nel 1935, brevi articoli di calcio sul settimanale milanese Lo schermo sportivo. A 17 anni segue già la Serie C per il Guerin Sportivo. E subito dopo - lui, padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni - collabora con bollettini parrocchiali, quotidiani di provincia e il mensile Ticinum: cronache locali, sportive e non solo, e ritratti «dal vivo». È il tesoro disperso e semisconosciuto del giovane Brera, a cui appartiene anche un gruppo di racconti apparsi fra il febbraio e l'8 settembre del 1943 su Il popolo di Pavia (dopo l'armistizio invece passerà persino da Il Popolo repubblicano) oggi ritrovati da Dario Borso, che su una trentina circa a disposizione ne ha scelti quattro, a naso, «per l'aura gastronomica che da essi potentemente emana». Ed ecco il volumetto Dalla Bassa (Slow Food, pagg. 96, euro 10): piccole storie - la prosa matura e arcimatta del vero Brera deve ancora venire... - che rivelano la passione del giovanissimo narratore per il cibo padano e per l'umanità curiosa. Sono ricordi della famiglia, come nonna Rosa, «che era nata a Budapest, nell'alta Ungheria...». Aneddoti di un tempo antico, quando si diceva che «le cantine sono come le donne. Prendi e riprendi, viene un bel giorno che rimangono vuote, e sfortunato chi le ha...». Ritratti di gente del paese, che all'epoca faceva tra i due e tremila abitanti, di cui nove su dieci coltivavano la terra e dove «si stendevano anche infelici filari di viti, per lo più Vitis Labrusca che dà l'uva americana» (lo rievoca il figlio Paolo Brera, nella postfazione). E ricette di cucina, quella che piaceva già al Giuânén, e che continuerà a cercare per tutta la vita, anche quando cambierà un ristorante a sera, sulle strade del Tour o del Giro, fra un'Olimpiade e un Mondiale, imparando a conoscere la gastronomia italiana e francese, ci scapperà anche un corso di sommelier. Ma tenendo sempre ben impresso nel naso e nella memoria il profumo dei suoi risotti, delle rane, dei brasati e del vino dell'Oltrepò.
Più o meno lo stesso menu dell'ultima cena, quella
consumata poco prima di schiantarsi - robb de matt - su uno stradone tra Codogno e Casalpusterlengo, i giorni di Natale del 1992. Era di ritorno da una serata di chiacchiere, calcio, polenta e pannoso Barbera. E comunque, Prosit!- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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