Chissà se «Mondo piccolo, grande schermo» - il convegno di domani allo Spazio Oberdan (via Vittorio Veneto 2, ore 10) con Peter Bondanella, Luigi Ganapini, Jean Gili, Paolo Mereghetti, Gerhard Midding e Andrea Vitali - chiarirà l'indole dell'ideatore di Don Camillo e Peppone...
Infatti il documentario di Francesco Barilli (protagonista nel 1964 di Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci) intitolato La vita di Giovannino Guareschi, si limita ad aneddoti: di figli, amici, conoscenti, mescolandoli a foto e filmati d'epoca. Il giudizio positivo è implicito, ma solo come bravo scrittore e uomo onesto. Nel documentario si ricorda anche il legame editoriale di Guareschi con Milano fra 1936 e 1952: il periodo di Bertoldo e di Candido, editi da Angelo Rizzoli. Il sodalizio s'interruppe nel 1961, con le dimissioni di Guareschi dalla direzione di Candido. Il suo tempo di giornalista marginale ma autorevole era finito con le ormai impossibili maggioranze di centrodestra, svolta elettorale che diede il colpo di grazia alla patria già gravemente ferita nel 1943. Morta la patria, restava il Paese. Ma per Guareschi il paese era solo l'angolino di Emilia dove era nato.
Proprio quando si celebrava il centenario dell'unità nazionale, voluta dai Savoia, chiudeva l'unico settimanale di successo diretto da un monarchico nell'Italia repubblicana. Certo, Candido avrebbe riaperto, sempre a Milano, ma a Guareschi morto e non più edito da Rizzoli. Succedeva a entrambi il (fascista) repubblicano, Giorgio Pisanò, ben più che il condirettore Vittorio Metz, già con Guareschi al Bertoldo. È questa una parte di storia del giornalismo ancora senza il suo convegno e il suo documentarista, ma di cui la Provincia di Milano - che sostiene il convegno di domani con la Regione Lombardia, la Fondazione Cariplo, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, la Fondazione Cineteca Italiana e il ministero per i Beni e le attività culturali - forse un giorno si ricorderà.
Quando si dice l'indole di Guareschi, si dice la sua natura di bastian contrario. Guareschi aveva una certa idea di sé e dell'Italia e sapeva testimoniarla sulla sua pelle. Non brigò mai per un ministero o altra ricompensa, sebbene la Dc, del voto del 1948, gli dovesse un 5 per cento. Si illuse però di avere ormai un ascendente su Alcide De Gasperi. E fu la rottura con lui a indurre Guareschi a pubblicare le lettere, risultate poi false, dove De Gasperi, nel 1943, avrebbe sollecitato il bombardamento di Roma. A Guareschi ne vennero processo, condanna, galera: avrebbe potuto evitarli. Non lo fece. Forse,, avendo dato una notizia falsa, s'illuse di dare un esempio vero.
Rimasto scoperto sul lato democristiano, sempre guardato con diffidenza dalla Chiesa per gli spunti eretici dei suoi romanzi (quando il vescovo trasferisce Don Camillo in montagna, i suoi ex-parrocchiani non nascono e non muoiono più!), Guareschi sprezzava i nuovi editori di area moderata, come Edilio Rusconi. Quest'ultimo, vicino a diventare padre, si sarebbe sentito apostrofare da Guareschi: "Ah, non sapevo che tua moglie avesse un amante!".
Così, al Guareschi degli ultimi anni restò solo la collaborazione al Borghese di Mario Tedeschi, fascista repubblicano, uno di quelli contro i quali, da monarchico, aveva fieramente inveito durante la prigionia in Germania del 1943-45.
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