Verona - Il Giro dedicato a Garibaldi unisce un altro pezzo d'Italia: per la prima volta, il vincitore ha natali vagamente sudisti. «Sì, sono il primo terrone a vincere la più bella corsa del mondo. Non ho paura a dirlo: la più importante forse è il Tour, ma la più bella è questa»: sono le prime parole che Danilo Di Luca, pescarese di Spoltore, 31 anni, riversa alla nazione, dopo aver chiuso una volta per tutte i se e i ma dell'edizione 2007, partita tre settimane fa dalla Maddalena.
L'ultima pulce nell'orecchio, questa lunga cronometro veronese che vedeva avvantaggiato il giovane prodigio lussemburghese Schleck, se la leva senza nemmeno dannarsi più di tanto: partenza a tutta per fiaccare subito le speranze del baby-rivale, quindi una tranquilla scampagnata tra vigneti e folla in festa, come a gustarsi panorama ed atmosfera, neanche pedalasse in un bellissimo quadro impressionista di Van Gogh. Alla fine perderà la sfida diretta per soli 29”, una barzelletta rispetto al vantaggio iniziale. Più lontano il vincitore, il Tav della Valseriana Paolo Savoldelli, capace di pedalare sul filo dei cinquanta orari: ma questa è tutta un'altra storia, troppo lontana dai veri giochi di classifica...
Signori si chiude. Il Giro porta oggi in parata fino a Milano gli eroi stanchi di una corsa strana. Divertente, non epica. Divertente come lo sono tutti quei tornei equilibrati, con tanti rivali in lizza, divisi da poche unità di misura in termini di talento puro. Ma proprio per questo non si può parlare di corsa epica, perché di fatto non consegna alla storia un vero dominatore, padrone assoluto e despota impietoso su tutti i terreni della sfida.
Di Luca vince perché è il più completo, il più armonico e decisamente il più astuto della comitiva. Parte subito forte nella cronosquadre (specialità molto spettacolare, ma con il solito difetto osceno: incide troppo in una disciplina sommamente individuale), quindi si mette in banca preziosi abbuoni sulle salitelle del centro Italia, infine si difende valorosamente sulle cime alpine. Con un acuto: Briançon. La regolarità, la costanza, la tenuta: queste le frecce veramente letali del vincitore. Così come lo sono per il suo giovane paggio, questo Schleck arrivato in Italia a scuola di grandi corse a tappe, per nulla convinto di sorbirsi tutto il Giro, ma che a forza di stare sempre con i primi, senza mai farsi staccare, però senza neppure mai provare un solo attacco, alla fine si ritrova sul podio...
Il podio, il podio. Purtroppo bisogna parlare di tutto il podio. Anche del terzo inquilino. Non è Simoni e non è neppure Cunego, come aveva pregato giorno e notte il patron Angelo Zomegnan, accendendo ceri in tutti i santuari piazzati lungo il percorso. Il terzo, alla fine di una grande cronometro, è proprio Eddy Mazzoleni, cioè il corridore atteso a Roma dal Procuratore antidoping Ettore Torri per spiegare certe intercettazioni intrise di doping. Tu pensa se alla fine lo squalificano. È una regola ferrea della vita: mai nascondere la polvere sotto il tappeto. Prima o poi, qualcuno solleva. Zomegnan si ritrova a Milano con l'imbarazzo sul podio: lui, partito dalla Sardegna lanciando la campagna del Giro candeggiato, con plateali spot sull'espulsione dei corridori sospetti, oggi dovrà spiegare come mai s'è scordato proprio Mazzoleni. Forse ha creduto che la cosa passasse inosservata, ma evidentemente ha sbagliato i calcoli: non solo Mazzoleni ha movimentato l'ultima settimana, ma addirittura va a prendersi premi e applausi sull'altarino milanese. Se vergognoso è il silenzio dei telecronisti di Stato sull'intera vicenda - quelli, purtroppo, li conosciamo -, tremendamente colpevole è l'atteggiamento di un organizzatore chiamato al rigore, vista l'aria che tira.
Cosa dire: complimenti al patron.
Cristiano Gatti
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