Tutti noi viviamo, istante dopo istante, portandoci dentro la nostra storia, con i passi che ci hanno condotti fino all'istante presente. La storia è quella, i passi sono quelli. Noi, però, siamo anche i narratori di questa storia: la trasformiamo (per noi stessi o per gli altri) in un racconto, e raccontandola la modifichiamo, inevitabilmente, dando più importanza a qualcosa, meno a qualcos'altro, accentuando qualcosa e omettendo qualcos'altro.
In una vita diciamo così normale, questo racconto, questa modificazione, dovrebbe avvenire senza sosta, come una continua scoperta di noi stessi. Qualche volta, però, un evento traumatico, un'azione violenta, subita o anche compiuta da noi, ha l'effetto di bloccare il nostro racconto, che di colpo diventerà indifferente al modo in cui la nostra storia va avanti, e noi ci trasformiamo nella ripetizione di noi stessi.
Succede nel caso di un crimine, quando l'azione violenta compiuta si trasforma nella definizione che il suo autore dà di sé stesso: io sono un criminale. In questa triste realtà sta la ragione per cui la stragrande maggioranza di coloro che finiscono in carcere, una volta scontata la pena ricadono nelle stesse male azioni: diventano, cioè, recidivi. Ma, se le cose stessero solo così, la giustizia - bene supremo - si ridurrebbe a un banale strumento con il quale si separano dal corpo della società le persone più nocive senza però riuscire a restituirle utilmente alla società. Questo significherebbe il fallimento.
Ecco perché, da diversi anni, il tema della «giustizia riparativa» è diventato centrale in Italia. Il termine spiega bene il contenuto: la giustizia non può soltanto sorvegliare e punire (secondo il celebre titolo di Michel Foucault), deve anche cercare di riparare qualche danno. E se non può restituire la vita a chi è morto, può però aiutare a modificare quei racconti che si sono bloccati, e come un bravo meccanico rimetterli in moto. Riparare i racconti è uno dei compiti di chi si occupa di giustizia riparativa. Un esempio straordinario di questo lavoro ci viene offerto da un libro sconvolgente (lo consiglio solo ai lettori forti, a chi non cerca soltanto lo svago) dal titolo Io volevo ucciderla di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina, pagg. 430, euro 29).
Il libro è occupato per la massima parte dalla registrazione della straziante conversazione tra i due criminologi e una detenuta del carcere di San Vittore a Milano, Stefania Albertani, rea della morte della sorella. La condizione di partenza del dialogo appare quasi insostenibile, data la particolare efferatezza del delitto (preferisco non spoilerare a beneficio di chi vorrà leggere questo grande libro): come può una persona ricominciare a pensare a sé stessa come a un essere umano, come tutti, dopo aver compiuto un'azione simile?
«Nun so' stata io!» grida disperata, al termine del Pasticciaccio di Gadda, una donna inchiodata dall'evidenza dei fatti, e in quel grido noi scorgiamo una disperata verità che la povera anima, schiacciata da un atto spaventoso, ripete davanti al nulla. Il carcere cancella spesso anche quell'ultima verità, e l'autore del crimine si accomoda, si siede dentro la propria azione, senza più la voglia di liberarsene, di staccarla da sé. Ecco, questa è la montagna, l'Everest che il criminologo deve cercare di superare per poter cominciare il suo dialogo vero e proprio e dare un senso all'azione buona di chi opera per la giustizia.
Questo lavoro di mediazione è durissimo: si tratta di lavorare senza sosta, per ore, settimane, mesi, su un racconto che si presenta sempre uguale, nel tentativo di aiutare una persona a modificarlo, a guardare a sé stessa in modo più umano: «Lei non è soltanto l'omicidio che ha commesso» dice Ceretti alla Albertani «non è solo quello. Certamente è anche quello (...). Ma quel gesto rimane pur sempre il fotogramma di un film, un fotogramma che pesa come un macigno (...) è un film noir in cui accade un omicidio, e se la ricordano tutti quella scena. Ma noi, di quel film stiamo cercando di scoprire quello che c'è prima e quello che c'è dopo quella scena. E le chiediamo di puntare su questa fragile scommessa». Stefania Albertani, millimetro dopo millimetro, accetta la fragile scommessa, e piano piano qualcosa d'importante accade sotto i nostri occhi. Qualcosa di meraviglioso, che compensa il lettore dello strazio che Ceretti e Natali (e la Albertani) non risparmiano né a sé stessi né al lettore.
Ma questo libro non è soltanto il documento di un'azione di mediazione, perché la giustizia riparativa che mette in atto è qualcosa che riguarda ciascuno di noi e il nostro modo di raccontare e raccontarci. Ossia, tutte le 24 ore della nostra giornata (anche dormendo il nostro racconto va avanti). Hemingway diceva che niente è più difficile di una «prosa onesta» sugli esseri umani. Ma raccontarci con onestà diventa addirittura impossibile nella solitudine.
Abbiamo bisogno di mediatori, sempre: di qualcuno, cioè, che ci aiuti a modificare il punto di vista su noi stessi: non per dimenticare (ci mancherebbe) quello che abbiamo fatto, ma per imparare - ed è una dura lezione - che noi siamo più grandi delle nostre azioni.La giustizia non può non darsi anche questo compito.
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