Il mago delle parole (Einaudi, pagg. 198, euro 15,50) è un professore di italiano che un giorno entra in una classe di adolescenti romani annoiati e li spiazza: «La grammatica è glamour: è una magia che ammalia, è l'arte di incantare con le parole». E via così, lezione dopo lezione, tra calembour, geosinonimi ed etimologie appassionanti come viaggi (nella storia, nella lingua, nella civiltà...). A tirare fuori questo mago dal cappello è Giuseppe Antonelli, che insegna Storia della lingua all'Università di Pavia e ha curato, fra l'altro, la Storia dell'italiano scritto (sei volumi, Carocci 2014-2021) e grammatiche per le scuole medie e superiori. Insomma un linguista serissimo: «Ho pensato a mia figlia adolescente, e al ragazzino che ero io».
Professor Antonelli, ha avuto un insegnante come il «mago»?
«Un prof così l'ho sempre sognato... Però alla Sapienza sono stato allievo di Luca Serianni, un professore dall'humor inglese, e devo a lui il lavoro meraviglioso che faccio. Dal punto di vista di un ragazzo, un incontro del genere è magico: cambia la traiettoria della tua vita».
Questo rinnovamento, per lei come per gli studenti del libro, avviene attraverso le parole.
«Sì. Sono convinto che le parole siano un pezzo di mondo fondamentale. Conoscerle sempre di più significa ampliare i propri orizzonti e acquisire consapevolezza, della propria esistenza e delle proprie relazioni. Del resto, anche l'Ocse l'ha messo nero su bianco, nel momento in cui, nei suoi test, considera le competenze di lettura fondamentali per una cittadinanza consapevole. Ma io dico di più: per una esistenza consapevole».
Che cosa insegna questo «mago»?
«Non solo a usare le parole in modo sapiente, ma anche a giocare con esse e a rivoltarle, per scoprirne i doppi sensi e le implicazioni nascoste, ovvero che cosa qualcuno ci vuole far fare, comprare o votare attraverso le parole... E poi anche che cosa noi possiamo fare con le parole e, anche, a inventare parole come visioni del mondo. Qualcuna fa presa, come apericena, chissà perché; altre no, come petaloso. Ma provi un senso di libertà creativa quando capisci come funziona la lingua».
Inventiamo molte parole?
«L'ottanta per cento del nostro lessico fondamentale, che è composto di circa settemila vocaboli, viene dalla lingua di Dante: è un calcolo fatto da Tullio De Mauro. È straordinario. Definire Dante il padre della lingua italiana è quindi una constatazione: noi parliamo la sua lingua e usiamo le parole codificate da lui. Si può anche giocare a vedere quali significati abbiano assunto quelle parole nel tempo, come tanto gentile e tanto onesta pare... e lo stesso vale per le regole».
Mutano anche quelle?
«Si pensi che vadi o facci erano utilizzati da Dante, Petrarca e Boccaccio, e perfino da Leopardi. Fino a Manzoni si usava abitualmente dire io amava, dal latino».
Nel «decalogo della linguistica» che propone nel libro si dice: «Immutabili sono solo le lingue morte». È così?
«Sì. Dobbiamo essere felici che l'italiano cambi e sia pronto a reagire a quello che succede nella società, nella politica, nella tecnologia e nel costume: significa che è una lingua viva. Si ricorda quanti allarmi sugli sms? Si diceva che avrebbero rovinato la lingua a causa delle abbreviazioni. Era una moda; ma le mode passano, l'italiano resta».
È una lingua resistente?
«È una lingua di cultura, che ha vinto battaglie ben più dure, come l'arrivo della stampa o l'invasione dei francesismi. E così avverrà anche per le parole inglesi: qualcuna si integrerà, quelle inutili cadranno. Dobbiamo avere fiducia nella forza eccezionale di una grande lingua di cultura».
Nel libro c'è anche un «decalogo dei pregiudizi», fra cui spicca: «Onora la grammatica che ti ha insegnato la scuola». Ci attacchiamo alle regole come alla ricetta del sugo della mamma?
«È così. Luca Serianni, che è stato anche fra gli autori della Garzantina, portò avanti la proposta di scrivere sé stesso con l'accento, perché la mancanza di accento è una eccezione fastidiosa, mentre così aiuta a distinguere il pronome personale dalla congiunzione ipotetica. Insomma portò avanti la proposta, con motivazioni razionali e schiaccianti, a parte il fatto che anche Manzoni lo scriveva così...».
Ebbene?
«Ora piano piano si sta diffondendo, ma la prima reazione era stata: a me a scuola hanno insegnato diversamente. Come col sugo della mamma, bisogna abituarsi all'idea che la lingua possa cambiare. La linguistica va avanti e anche l'insegnamento deve adeguarsi».
La grammatica, come sostiene il prof/mago, non è noiosa?
«No. La grammatica è l'arte di dire le cose nel modo giusto al momento giusto. Un italiano plurale è una bella immagine di creatività, sempre all'interno delle regole, che bisogna conoscere così bene da poterle declinare a seconda delle circostanze. La vera ricchezza della lingua è poter scegliere».
La regola più importante?
«Non avere una visione cristallizzata o inamovibile della lingua, che non aiuta a capirla meglio e non aiuta i ragazzi a impararla. C'è una energia che attraversa la lingua e il gioco può servire a sprigionarla: come con l'Accademia d'arte grammatica che i ragazzi creano nel libro, che è un po' autobiografica, perché coi compagni di università fondammo l'Accademia degli Scrausi dove, fra le altre cose, giocavamo molto con le parole».
Insomma la grammatica è davvero glamour?
«Una etimologia illuminante. Grammatica nel Medioevo era sinonimo del latino; però il latino era la lingua colta, quindi anche oscura e misteriosa, per cui nell'antico francese la parola grimoire indicava i libri di stregoneria. Poi nel vocabolario scozzese è diventata glamer, incantesimo, e in inglese glamour: un fascino irresistibile. Grammatica e glamour hanno la stessa etimologia e questa è la prova di quanto sia sorprendente l'uso delle parole».
Quanto è difficile praticare l'arte della grammatica?
«Sono convinto che sia più semplice di tante altre cose che i ragazzi fanno. Si tratta solo di incuriosirsi e appassionarsi all'uso della lingua. L'elemento forte è la cura delle parole».
Che cosa significa?
«C'è un aneddoto di David Foster Wallace su due pesci giovani che ne incontrano uno anziano, e quest'ultimo chiede: Com'è oggi l'acqua?. Al che uno dei due giovani domanda all'altro: Ma che cos'è l'acqua?.
L'italiano è l'acqua: siamo così immersi in esso che lo diamo per scontato, come uno strumento logoro, perciò non ne abbiamo cura e non lo sfruttiamo in tutta la sua ricchezza e dinamicità. Invece dobbiamo essere consapevoli che è uno strumento potente di interpretazione e creazione della realtà in cui viviamo».
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