Il gusto per l'eterno del grande Minerbi

A Ferrara, l'esposizione sullo scultore amato da d'Annunzio e ingiustamente dimenticato

Il gusto per l'eterno del grande Minerbi

Ho fortemente voluto la mostra di Arrigo Minerbi, anzi l'ho desiderata per quasi mezzo secolo, da quando vidi le prime sculture di Minerbi nella tempesta di mostre dei grandi maestri, Arturo Martini, Giacomo Manzù, Marino Marini, Alberto Giacometti, e, più tardi, l'allora dimenticato, quanto oggi è riscattato, Adolfo Wildt. E mi chiedevo perché non ci fosse mai spazio per Minerbi. La ragione è semplice: in Minerbi non c'è nessuna concessione alla modernità. Questa deroga era stata episodicamente concessa al solo Francesco Messina (non al grande Antonio Berti, per esempio). È anche vero che Messina ostinatamente classico, si era applicato a soggetti accattivanti, prevalentemente nudi femminili o danzatrici, sottraendosi, attraverso i soggetti, al rischio di essere considerato accademico o realista. Messina ebbe lo stesso destino di eccezione, nel contesto artistico del suo tempo, di Piero Annigoni. Intorno il deserto, o la catarsi formale di Giacometti, di Leoncillo, di Mirko. Si potrebbe dire allora che la sfortuna di Minerbi, così incredibilmente pervicace, tanto da aver ritardato fino ad oggi la sua riabilitazione, discenda dal suo attivismo durante l'età fascista. La sua parabola, a partire dalle prime affermazioni alla galleria Pesaro, coincide con quella di Margherita Sarfatti. E sarebbe da chiedersi perché Minerbi non sia stato, come altri, organico al gruppo di Novecento, in una singolare consonanza con il concittadino Achille Funi. Per la Sarfatti la sua ricerca, fondata sui modelli classici, doveva probabilmente essere troppo accademica. E infatti Minerbi viaggiava su un binario parallelo, legato al più profondo animatore delle arti dell'epoca, in un regime, anche estetico parallelo: Gabriele d'Annunzio.

La tutela del vate prevedeva anche la speciale e coerente attenzione per Wildt, attraverso l'amicizia con Federico Balestra che donò il suo anello nuziale, del matrimonio con Mimì Pirelli Paradisi, a Fiume Italiana. Fu una storia ambigua e intrigante quella di Gabriele d'Annunzio (Ariel) con la Marchesa Mirella Paradisi(Mimì)nel periodo tra il 1921 e il 1927. Nei primi anni del ritiro del poeta al Vittoriale degli Italiani, questa donna d'affari, moglie dell'ex legionario Federico Balestra, divenuto dopo la guerra direttore della sfortunata casa editrice L'Olivetana, tentò invano di ritagliarsi una posizione privilegiata nel complicato panorama affettivo di D'Annunzio.

Di Wildt per D'Annunzio restano il monumento di Fiume e la maschera dell'Idiota. D'Annunzio aveva intuito la vocazione irrazionalistica, antirealistica di Wildt, e aveva invece trovato in Minerbi la semplicità dei sentimenti. Ed è a Minerbi che tocca, pietosamente, l'esecuzione nel 1938 della maschera mortuaria in marmo di d'Annunzio.

Lui aveva realizzato il monumento per la madre di d'Annunzio Luisa De Benedictis, nella cattedrale di San Cetteo a Pescara, la cui parte superiore è al Vittoriale, e la testa ispirata di Eleonora Duse. Al Vittoriale si trova anche la fusione del Piave donata nel 1935 a d'Annunzio dal Comune di Milano(una precedente fusione del 1928 è nella Torre della Vittoria a Ferrara). La semplicità, la verità, l'umanità di Minerbi, riconosciute da d'Annunzio, trovano la loro più alta rivelazione nel grande rilievo con la maternità per la clinica Mangiagalli di Milano. Quel bambino, quel bambino riottoso, immusonito, che Minerbi isolerà in altri rilievi, è il miracolo della vita, accolto e assistito dalle donne con la delicatezza di chi maneggia cose preziose, fragili, mentre, sfinita, la madre dorme. Un teatro della umanità nel presente, trasferendo la Natività in un ospedale.

Nulla, nella scultura del Novecento, è tanto vero e tanto puro. E ne era consapevole Minerbi scrivendo, nel 1930, una lettera al presidente degli istituti clinici Luigi Mangiagalli: «La mia arte, frutto sempre di meditazione, ha solo le apparenze del vero. In sostanza è invece un vero ideale, lontanissimo dalla carne che è disfacimento. Senza voler fare un gioco di parole, potrei dire che il mio vero' e' sempre allegorico', e la mia allegoria è sempre veduta e goduta dal vero».

Nella parola «disfacimento» c'è un indiretto riferimento alla grande e distante scultura di Medardo Rosso e anche, nell'affidamento al «vero» una presa di distanza dalla scultura monumentale del fascismo, nei suoi migliori esempi, da Eugenio Baroni ad Arturo Dazzi, da Aldo Buttini a Domenico Ponzi.

I temi di Minerbi sono sempre legati all'intimità, in soggetti familiari lontanissimi da ogni retorica. E quando affronta(1920) il tema più alto, la solitudine immensa, in quel momento decisivo, della L'Annunciata senza l'angelo, come quella di Antonello da Messina, tocca il sublime moderno. Nella figura della Vergine ci sono la malinconia e l'orgoglio del destino, il sentimento della madre, l'umiltà, la commozione e il silenzio stordito dalla parola di Dio, l'immobilità e il tumulto. Solo la Maternità di Carlo Bonomi può starle a fianco. Era difficile cogliere una condizione nuova in un soggetto tanto antico. Nella concentrazione di Piero della Francesca, di Orazio Gentileschi, del Canova delle stele funerarie, raramente una scultura ha toccato un assoluto così alto. Il mio ricordo è tanto più intenso perché contaminato dalla situazione, che era imprevista a Minerbi e a chiunque, di aver visto questo capolavoro in marmo azzurrino, solitario e silente, nel rumore assordante della casa di Marta Marzotto a Portorotondo. Tale penitenza toccò a questa scultura da clausura! trovarsi in una condizione così lontana. Ma Lei imponeva distanza e devozione.

Si riaccendevano, davanti alla sua umile maestà, i versi di Rainer Maria Rilke, propriamente le parole dell'angelo nella Annunciazione:

«Tu non sei piú vicina a Dio

di noi; siamo lontani

tutti. Ma tu hai stupende

benedette le mani.

Nascono chiare a te dal manto,

luminoso contorno:

io sono la rugiada, il giorno,

ma tu, tu sei la pianta».

Guardate le mani, guardate il manto, guardate l'aura luminosa (e numinosa) che la circonda.

Forse la più bella scultura italiana del Novecento. Certamente di Novecento.

Marta, andandosene, ha fatto un gesto alto: ha trovato alla scultura un rifugio sicuro, un altro porto, da Portorotondo a Porto Gruaro. Dal frastuono delle feste al duomo della città della sua famiglia.

In questo «clima», è la tenuta di Minerbi a stupire per la sua integrità formale, che sembra fuori del tempo e che non accetta condizioni dalla situazione storica. In circa cinquant'anni di produzione la forma di Minerbi rimane stabile, anzi costante, non alterata in nessun momento dal gusto e dalle mode, non liberty, non realista, non Novecento, non fascista, non comunista, non astratto. Fermo e intatto come nessuno. Come un'antico. L'unico movimento del suo stile è il movimento interiore dei volti, di semplicità contadina o borghese, mai aristocratici, mai altezzosi, mai distanti. Mentre lui è distante dai suoi tempi. Milano è la sua città, Ferrara la sua memoria. Nel corso degli anni le commissioni aumentano, sempre nell'ambito milanese e lombardo. Partecipa alla Fiorentina Primaverile nel 1922 e alla Biennale di Venezia nel 1932 con una sala a lui dedicata. Crescono i suoi committenti nella borghesia: Guido Rossi, Guido Ucelli di Nemi, fondatore e presidente del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, dove campeggia un suo capolavoro e, naturalmente, d'Annunzio.

Tra i suoi capolavori, a indicare la capacità di intercettare sentimenti e stati d'animo, il trittico di Cesare Battisti, Il soldato, l'apostolo, il martire, la superba Ultima cena, in argento per la cattedrale di Oslo, i cui gessi con i singoli apostoli sono a Ferrara, il ritratto di Vittore Grubicy de Dragon, che trasporta in scultura l'intatta emozione del disegno di Romolo Romani.

Minerbi non cercò gloria e fama, e non ebbe parte in alcun gruppo o movimento del secolo breve, ma lungo per lui.

La sua perfezione è frutto della solitudine.

Il suo lavoro è titanico. Grande è il suo impegno per Milano, per la vita e per la morte. A Minerbi molto si deve: la prima porta di sinistra della facciata del Duomo di Milano, con l'episodio dell'Editto di Costantino (1937-1948), per la quale vinse la commissione gareggiando contro il suo grande rivale, Giannino Castiglioni; nel Cimitero Monumentale l'Edicola Cusini (1925-1927), con la scena di San Francesco che predica agli uccelli, Il sonno di Luisella Falck per l'edicola Falck (1955), Il pianto del fiore per la sepoltura di Angelo Radaelli (1922), La Carne e lo Spirito per il monumento Dell'Avalle (1951).

Nessuno come Minerbi ha portato la vita nell'arte cimiteriale.

Ed ora, finalmente, rivive, nella sua città natale, nella grande mostra del Castello estense (dall'8 luglio al 26 dicembre 2023).

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