"Ho ri-fotografato il D-Day con l'IA. Perché oggi di verità ce ne sono tante"

In "We are at war" l'autore inglese Philip Toledano modifica lo sbarco in Normandia

"Ho ri-fotografato il D-Day con l'IA. Perché oggi di verità ce ne sono tante"

Nei giorni folli dello sbarco che salvò l'Europa dal nazismo, Rober Capa era sulle spiagge della Normandia. Fotografo embedded, si direbbe oggi, con l'esercito alleato per documentare gli eventi con la sua Contax. E quella fredda mattina del 6 giugno 1944 sta tutta in undici scatti, un lavoro imperfetto, Leggermente fuori fuoco (come raccontò nelle sue memorie), che tredici giorni dopo era pubblicato su Life e portava la guerra nelle case della gente. Il reporter ungherese ne scattò in tutto 106, tra bombardamenti, proiettili e morti ovunque, diventando testimone della verità ripresa in diretta. La storia iconografica del D-Day fu questa, nessuno si era mai sognato di contraddirla. Fino a oggi. Con un incredibile colpo di scena, spuntano gli scatti che andarono persi in un presunto pasticcio avvenuto nel laboratorio di sviluppo. Ci sono perfino i provini a contatto, ma li ha ricostruiti con l'Intelligenza Artificiale un artista fotografo multidisciplinare che con questa tecnologia sperimenta da un po'. Lui è Phillip Toledano, una laurea in Letteratura inglese e un percorso professionale costellato di lavori intimisti che lo condussero al limite dell'autoanalisi. Il suo ultimo libro, il nono, si intitola We are at war, pubblicato in Italia da L'Artiere. Concepito come una scatola dei ricordi, custodisce finte foto, telegrammi e oggetti fasulli e perfino una copia inventata di un vecchio notiziario americano, prodotto da collezione che reinventa uno degli episodi più importanti del Novecento.

Per quale motivo ha falsificato la storia?

«Per far valere le proprie ragioni, a volte bisogna agire in modo drammatico, se si vuole che la gente ascolti. Capa è uno dei più famosi fotografi di guerra di tutti i tempi, e il D-Day uno degli eventi più importanti del XX secolo. Capa stesso ha creato un buco nella storia, con la faccenda dei rullini perduti, era impossibile resistere. Come artista, sento l'obbligo della curiosità e mi interessava l'idea di poter raccontare come, nella società occidentale, la verità dei fatti sia diventata una semplice opinione, mentre un tempo era indispensabile che tutto fosse confutato da consenso e prove. L'IA genera varie versioni della realtà e tutte pretendono di essere reali, è il meccanismo delle fake news».

Il titolo del libro è declinato al presente, perché?

«We are at war ha molteplici significati, in primo luogo si riferisce all'imminente guerra invisibile che si sta facendo alla verità e alla storia, che viene scatenata dall'IA e si trasforma in un conflitto dei fatti e delle menzogne tra noi esseri umani. Sono interessato a questo particolare momento storico in cui confluiscono due aspetti importanti: l'idea che gli avvenimenti siano opzionali, non necessariamente verità nelle quali tutti concordiamo, e l'arrivo dell'IA».

Le fake news sono uno dei problemi di questo tempo?

«È così, ma mi chiedo anche se sia un problema solo per una percentuale molto piccola del mondo: i giornalisti e gli educatori si preoccupano della verità, ma sospetto che la maggior parte delle persone si preoccupi solo del prezzo delle uova».

Nella presentazione del libro parla di «Surrealismo storico», può spiegare?

«Si tratta dell'idea di riscrivere la storia, proprio come è stata riscritta in precedenza, con prove visive convincenti. Sembra familiare e forse vera, come ogni buona bugia, perché è così vicina alla verità ma non lo è. Vivo in America, dove abbiamo a che fare con le teorie della cospirazione e milioni di persone credono a palesi bugie costruite ad hoc e date in pasto al pubblico per manipolare opinioni. Prima solo una minoranza della popolazione aveva questa tendenza, oggi l'IA è così potente nel creare prove che qualunque cosa esiste davvero».

La fotografia è ancora utile per raccontare i fatti?

«Penso che non sia più possibile considerare un'immagine come prova visiva del reale, come negli ultimi cento anni. Sospetto che il ruolo fondamentale della fotografia sia finito a causa di una tempesta perfetta di tecnologia potente, l'IA, e di un sistema di distribuzione perfetto, il telefono, la rete. Ci troviamo in un mondo che sembra pronto a credere e ad agire in base a queste convinzioni. Il pericolo, lo vediamo sempre più spesso, è che un gran numero di persone prenda decisioni in base a informazioni inventate. È cambiato il nostro rapporto con le immagini, ora tutto è vero e falso contemporaneamente, dobbiamo trovare un nuovo linguaggio per comprendere ciò che osserviamo».

Come risponde alle critiche che le vengono mosse per l'uso di questo medium?

«Tutta l'arte prima o poi viene messa in dubbio da qualcuno. Vincent van Gogh non piaceva a molti suoi contemporanei (e non voglio pormi al suo livello!). I pittori contestavano la fotografia nel 1850, non ritenendola arte. Poi i fotografi analogici hanno contestato il digitale. Le persone sono sempre destabilizzate dai cambiamenti. Per me si tratta di usare un mezzo per mandare un messaggio. Nasco come artista fotografo, ma se si guarda a tutta la mia carriera, non ho mai usato solo questo strumento. Mi sono affidato a video, dipinti, sculture, installazioni. Il mio lavoro è essere curioso e guardare da ogni finestra possibile. Se non lo facessi avrei fallito».

Ha confezionato questo libro come una scatola con dentro una rivista che riprende lo stile dell'epoca.

«Ho usato un linguaggio giornalistico per creare un finto scoop. Stavo già costruendo dal nulla una menzogna, quindi perché non portarla al massimo creando l'illusione di un manufatto perduto degli anni '40?».

L'altra sua fatica recente, Another America, è ambientata in una New York post-bellica: di nuovo il secolo scorso è lo specchio del presente?

«In quel caso ho reimmaginato un mondo con una nuova grammatica, ricreato storie alternative in una società distopica sospesa, irreale, ma resa possibile.

Plasmando di nuovo con l'IA i miei personali punti di riferimento, i disastri, l'abbigliamento, le tragedie, gli animali, gli eventi atmosferici, ho scelto il dopoguerra di proposito perché alle foto vintage attribuiamo sempre una connotazione di verità oggettiva, sebbene anche allora venissero manipolate. Voglio che l'osservatore venga disorientato e si fermi davanti alle mie opere a pensare. È stata questa la sfida. C'è un messaggio da capire, distinguere il vero dal falso».

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