Prima i capitali, poi i Bot

La questione fiscale ha suscitato fra i leader del centrosinistra e delle sinistre cupidigie, furori e tremori. Il programma dell’Unione, pur nella sua prolissa ambiguità, presuppone strutturalmente, come direbbe un tecnico, un aumento della pressione fiscale perché altrimenti non si spiega come potrebbe essere abbattuto quel cuneo fiscale, che è il vero padre di tutti i cunei e di tutte le polemiche. Lo stesso Prodi ha detto, disdetto e contraddetto, ma sostanzialmente ha confermato la vocazione tributaria e predatoria, tant’è che alcuni suoi alleati per calcolo elettorale (Rutelli, Fassino, Mastella) hanno cercato di smarcarsi negando, attenuando, diluendo. Altri ancora, però, come Bertinotti in materia di successioni, hanno ribadito la pulsione incontenibile a imporre tasse, balzelli, gabelle. Infine, l’altro ieri, Alfonso Pecoraro Scanio, che nella compagnia di giro fa l’attor giovane e il finto ingenuo, ha tirato fuori, durante una trasmissione televisiva, un’altra idea geniale: ritassare, con una stangata aggiuntiva del 10 per cento, i miliardi di euro (fra 70 e 80) rientrati dall’estero con l’intesa del cosiddetto «scudo fiscale». Com’è noto, su questi capitali è stata pagata, al momento del rientro, un’imposta del 2,50 per cento e con questo concordato si è chiusa ogni questione fra il fisco e i proprietari di quelle risorse. Che sono tornate a casa, per essere impiegate nel nostro sistema economico e finanziario.
È difficile dire quale senso dello Stato abbia l’onorevole Pecoraro Scanio, ma non sfugge a nessuno che l’amministrazione finanziaria, che mantiene la stessa faccia quale che sia il governo in carica, non può mai venir meno alla parola data e ai patti sottoscritti. Soprattutto in materia di finanza, di fisco, di risparmi. Una misura come quella ipotizzata dal parlamentare verde è tipica degli Stati assoluti o primitivi, nei quali il sovrano poteva, con artifici, editti e fatti compiuti, confiscare i beni dei sudditi. Se è questa la concezione dello Stato di diritto che hanno taluni esponenti della sinistra, c’è veramente da preoccuparsi e non poco.
Come si procederebbe? Le banche e i fondi dove attualmente sono collocati quei capitali verrebbero incaricati di incamerare per conto delle Finanze, magari una tantum, una fetta di quelle sostanze? E ai proprietari cosa direbbero i funzionari del fisco: «Ci abbiamo ripensato, avete fatto male a fidarvi?». Nei sistemi di democrazia liberale le cose funzionano in maniera diversa, ci sono delle regole, dei principi, delle garanzie. Pecoraro Scanio e i suoi compagni pensano che la demagogia possa sopraffare anche il senso della legge e la consapevolezza dei diritti. In fondo, nessuno dovrebbe protestare se si spremono «i ricchi», i «detentori di capitali». Ma la demagogia è una cattiva consigliera. I principi valgono sempre e per tutti. La ritassazione dei capitali rientrati si rivelerebbe soltanto il primo passo all’indietro di una regressione civile incontrollabile. Se lo Stato non mantiene la parola per lo «scudo fiscale» può benissimo riperdere la faccia in materia di Bot e dichiarare unilateralmente decaduto il patto sulla misura della tassazione dei vecchi buoni del Tesoro. E giù stangate, pardon: armonizzazioni, suona meglio, capirai l’armonia.
E ancora, si potrebbero rivedere successioni e donazioni già chiuse, tutto diventa possibile quando la demagogia si traveste da ragion di Stato.

In nome della socialità si possono attaccare il lavoro e i risparmi dei cittadini, anche di quelli che hanno impiegato una vita a mettere da parte ventimila euro. In Bot, s’intende, perché i vecchi dicevano: «Lo Stato non fallisce e non tradisce». Una volta era così, oggi non siamo sicuri di nulla.

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