Originale o copia? Eterno problema per l’arte contemporanea dove il talento non si misura con il virtuosismo o con l’abilità tecnica ma attraverso il dono di tenere dritte le antenne e captare ciò che si respira nell’aria. E trasformarlo in qualcosa che funzioni e si venda a caro prezzo.
Nell’arte di oggi il concetto di plagio non esiste, a differenza della musica, dove mettere insieme una sequenza di note come un altro autore è chiaramente un reato (capitò persino a Michael Jackson di perdere una causa contro Albano). Nel tardo Novecento Andy Warhol rifaceva Giorgio de Chirico che già aveva rifatto se stesso. Un pittore pop americano, Mike Bidlo, aveva letteralmente brevettato la ri-esecuzione letterale di dipinti di suoi colleghi. E sempre dagli Usa, negli anni ’80 ebbe un breve periodo di notorietà la corrente dell’appropriazionismo, che sosteneva il legittimo uso di qualsiasi immagine: Sherrie Levine rifotografava gli scatti di Walker Evans e li firmava come suoi, Richard Prince (uno degli artisti più costosi al mondo) si limitava a prendere la pubblicità della Marlboro spacciandola per propria.
Della giustificazione concettuale Damien Hirst non ha mai avuto bisogno. Se una cosa lo attrae, lui l’assume come invenzione propria, girandoci attorno, modificandola quel tanto che basta, aumentandola di scala per renderla più stupefacente e cara. In venticinque anni di carriera spesso qualcuno ha insinuato il dubbio che le più eclatanti immagini non fossero proprio farina del suo sacco. Il piemontese Nicola Bolla, a esempio, ha dimostrato (date alla mano) di aver realizzato un teschio in Swarovsky diversi anni prima di Hirst, che avrebbe solo cambiato i cristalli in diamanti veri. Bolla è certo che l’inglese avesse visto la sua scultura a una fiera di Basilea: non esiste la prova provata, ma il dubbio permane...
Il caso però si sta ingrossando. È in giro un dossier documentatissimo atto a smascherare le troppo frequenti «ispirazioni» del perfido Damien, che riguardano sia dei carneadi, sia artisti piuttosto famosi tra gli addetti ai lavori. Lo ha compilato Charles Thompson, fondatore del gruppo Stuckist, mostrando e dimostrando con raffronti fotografici che Hirst è un saccheggiatore professionista. Alcuni degli exploit più clamorosi li avrebbe rubati in particolare al misconosciuto John LeKay, a seguito di un periodo di frequentazione nel 1992. Allora LeKay viveva a New York e Hirst, che visitando il suo studio si accorse del talento inespresso del collega, dopo averne osservato a lungo le opere, gli disse: «Spiegami come fare a conquistare l’America come fecero i Beatles». Him, la gigantesca scultura del corpo umano che Hirst ha realizzato nel ’99 e per la quale era già stato accusato di plagio da un designer, è sorprendentemente simile a Yin and Yiang di LeKay (1990), così come In the Name of Father (2005), la carcassa di animale squartato, riprende in modo sospetto un lavoro che l’altro eseguì nel 1987, venduto a 3.500 sterline. Una miseria.
E non basta: i furti riguarderebbero anche artisti famosi. A esempio il surrealista Joseph Cornell che nel 1943 produsse una Farmacia, trasformata da Hirst in versione high-tech. Il tedesco Hans Haacke potrebbe rivendicare la paternità di Floatin Sphere del 1964, una palla che galleggia misteriosamente nel vuoto, rielaborata da Hirst con colori pop nel 1995 con il titolo Loving in a World of Desire. C’è poi una replica dei quadri a pallini di John Armleder, 1978, che l’inglese ripropone negli anni ’90. Addirittura lo squalo in formalina, la sua opera più scandalosa, avrebbe un precedente in un oggetto simile di Eddie Saunders, ma qui dimostrarlo è difficile perché si tratta di due esecuzioni pressoché coeve.
L’atto d’accusa di Thompson non risparmia neppure la pittura: esistono esempi di quadri con farfalle di un’artista americana, Lori Precious, che valgono 6mila dollari. Gli Spin Paintings (quadri realizzati da una macchina a metà anni ’90), sarebbero tratti da analoghi esperimenti di Walter Robinson intorno al 1985. Il cinico Hirst non si fermerebbe neppure davanti al Santo Natale, se è vero che è stato capace di riprendere una cartolina d’auguri e trasformarla in un multiplo.
Chi ha ragione? Il disincantato Hirst che ha più volte dichiarato di fregarsene altamente delle accuse, spiegandoci in pratica che l’artista deve essere furbo e veloce, non un asociale rinchiuso nel proprio studio a macerarsi di frustrazioni, oppure Charles Thompson che dichiarandosi strenuo difensore di un’arte tradizionale ci insinua il legittimo dubbio di non aver capito nulla della contemporaneità? Hirst per ora tace, rimandando a un commento ufficiale. Questa volta però non reagisce con la consueta arroganza, temendo forse di essere stato colto in fallo.
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