I medici, da umanisti (e umani) a supertecnici specializzati

Viaggio molto personale fra i dottori di ieri, quando il "condotto" curava il corpo, e di oggi, fra tac e "range"

I medici, da umanisti (e umani) a supertecnici specializzati

C'era una volta il medico che ti toccava il corpo e sorrideva. Partiva dall'idea che tu fossi sano e non subito malato cronico senza neppure guardarti in faccia. Ti tirava il sangue con la siringa, ti scrutava che colorito avessi, ti bussava e auscultava le spalle, ti palpeggiava la pancia, ti abbassava con il pollice le palpebre per controllare meglio pupilla e vasi. Insomma erano olistici o clinici. Ancora fuori dal supertecnicismo e dalla burocrazia che ha reso il famoso medico di base eroe o cretino. Certo, nei Sessanta gli ospedali erano mattatoi. C'era sangue dappertutto. Gli operati d'ernia rimanevano ricoverati per quindici giorni tra urla e medicamenti. Negli stanzoni si fumava. Fumavano medici e pazienti. Solo le suore no. Però ricordo il dottor Franco Papa che aveva il laboratorio di analisi e già quando vedeva la densità del sangue nella siringa intuiva se eri anemico o carico di globuli rossi e ematocrito. E quando riconsegnava su un foglietto il risultato delle analisi, con scrittura dai caratteri sbavati e battuti da una macchina da scrivere vecchia di cento anni, sul frontespizio non campeggiava «Centro di alta diagnostica», quello che a me, per la modica cifra di trecentotrenta euro, ha sbagliato i tempi di coagulazione senza che il direttore che firma si prendesse la briga di informarmi, dovendo sapere che con un Inr a 3,34 risultavo scoagulato e dunque a rischio di emorragie; ecco, i risultati del dottor Papa per Ggt, Got e Gpt non prevedevano range ma crocette che lui sapeva benissimo interpretare e studiare per poi importi come trattare il fegato.

Suo padre Riccardo curò il mio affetto da setticemia per una tonsillite trascurata durante la guerra. Lo guarì comprando le medicine dal Vaticano. Ricordo il dottor Barbaliscia a Genzano. Basso, identico a un incrocio tra Mussolini e un Bouledogue francese. Schizzava con il suo Maggiolone a vetro piatto al primo trillo di telefono. Nel suo studio estraeva denti, faceva radiografie, analisi... Salvò il mio fratellastro dalla meningite spedendolo in quel colosso dalle stanze immense che era il Bambino Gesù di Roma.

Quando da diciottenne andavo a trovare il mio medico Angelo Velotti, nato a Nola, gran signore, e gli raccontavo come in confessione, che avevo fastidi ai genitali, mi sussurrava: «L'amore si può fare con meno foga». I medici, quando controllavano il territorio palmo a palmo quanto i cercatori di funghi i boschi, nelle visite erano prodighi di carezze, magari quelle che non ti facevano a casa. Pazzesco. Ma se questi erano medici di famiglia, di condomini, medici-amici, anche i luminari venivano dalla stessa scuola. Per esempio, Luigi Condorelli. Cardiologo, docente universitario, patologo, internista. Nei primi Sessanta visitò mio nonno ricoverato in ospedale. I miei zii lo chiamarono per un consulto giacché molti medici della struttura ospedaliera, ai quali il professore aveva consegnato la laurea in medicina, non venivano a capo della faccenda, e del perché mio nonno, operato al duodeno subito dopo la guerra, di tanto in tanto soffrisse di emorragie.

L'insigne medico, che assieme a Valdoni fu dottore del papa, arrivò sul piazzale dell'ospedale trovando i sanitari con il camice lungo fino alle caviglie schierati in fila come per un present'arm. Ben presto fu al capezzale del nonno. Io stesso vidi coi miei occhi che gli tirò sotto la gola la maglia di lana e, con una grossa matita blu, quella che sempre una volta gli insegnanti usavano per correggere gli errori gravi dei loro studenti, incominciò a tracciare linee, snodi, rotonde, cascate sul petto, addome, pancia del nonno. Impartì ai medici, magari suoi ex studenti, una visita-lezione. Gli disse che l'operazione fatta con mezzi precari allo stomaco del nonno, successivamente aveva prodotto plessi e grumi di vene che potevano cedere e dunque permettere al sangue di inondare l'intestino discendente e le feci. Alla fine concluse: «Asini con le corna, bestie, mettete solo sangue nelle vene di quest'uomo. Lo state facendo morire!». Ripartì quando il maggiordomo-autista in marsina gli spalancò la portiera della lucente Mercedes 280 blu, mentre i medici somari si inchinavano a sessanta gradi.

Chiamo al telefono il mio amico Francesco Le Foche, grande immunologo clinico. Vorrei mi spiegasse come è accaduto che siamo passati dall'attenzione al corpo e al colorito roseo o ceruleo a questa sanità fatta a colpi di Tac e di ospedali in tilt. «Pochi medici ormai sono in grado di partire dai segni clinici. La medicina di cui mi parli non può esistere più. Quella di allora conosceva capillarmente il territorio. In ospedale ci si arrivava solo con le urgenze che non potevano essere risolte dal medico di famiglia e dal sistema delle Asl».

Mentre parla è interrotto da una voce di donna concitata che gli dice che sono arrivati due nuovi casi Covid. «Nuovi di zecca», capisco. Un cinquantenne non ha sintomi ma la pressione massima a 220. Per l'altro Francesco impartisce sicuro: «No Cortisone. Clexane da 6000». Riprende a dirmi che è stato smantellato il drenaggio del territorio. Non è stato calcolato che il nostro problema è geriatrico. Che la gente fugge in ospedale, intasandoli, perché non è sufficiente l'utilizzo delle Uscar (unità sanitarie che si recano nei domicili). Salutato Francesco Le Foche, rompo le scatole a uno dei miei tre urologi. Mi dice, mentre sono sotto l'ospedale in macchina: «Caro Aurelio, la vecchia tradizione e cultura delle condotte è finita. I giovani futuri medici di base, non fanno lavoro sul campo. Il lavoro da pronto soccorso, insomma. Del resto lo sviluppo tecnico ha imposto la specializzazione. Necessaria. Ma si è perduta l'antica esperienza. Io mi sento ancora un medico umanistico. Sono un medico africano. Ho imparato sul campo, proprio in Africa, a curare senza mezzi». Invece il mio medico (uno dei dieci) mi cita tre quattro volte il nome di Marco Marchetti, suo maestro. «Si fece il gesso da solo perché non si fidava degli ortopedici. E poi non faceva che ripetere: no dati no numeri no dati no numeri no dati no numeri».

Quando chiamo Zaccaria Rossi, mio confessore e gastroenterologo, apprendo che ha avuto il Covid e si è curato da sé. Flebo e cortisone. Mi consiglia di fare una colonscopia e di rilassarmi. Rilassarmi?, mi dico.

E penso: morirò in guerra contro il mondo o per un infarto-ictus come il nonno. Alla genetica non si sfugge. Sei milioni di globuli rossi, ematocrito alla Pantani, emoglobina che serve per tre uomini. Allora decido di donare il sangue.

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