"I miei in montagna, io al mare in barca"

Le signore del mare-1/Chiara Calligaris, allenamenti durissimi, volontà di ferro e una grande passione: "Solo così si ottengono risultati importanti. Peccato che in Italia la vela sia ancora uno sport minore perché nella vita aiuta davvero"

"I miei in montagna, io al mare in barca"

di Michele Caracciolo di Brienza

Chiara Calligaris abita a Monfalcone. Velista di livello in­ternazionale con la passione per la geologia, ha partecipato con la classe Yngling alle Olim­piadi di Pechino nel 2008 e ha conseguito un dottorato di ri­cerca in geomatica all’Universi­tà di Trieste. Vanta due titoli mondiali nella classe Europa. Attualmente regata per lo Yacht Club Adriaco di Trieste.
Quando ha cominciato?
«Nelle acque del Golfo di Pan­zano. Ero bambina... I miei non erano appassionati di vela e quando hanno finito di costrui­re la casa in montagna... io ho cominciato ad andare in barca. Però, fortunatamente, sono sta­ta assecondata».
Quando è arrivato il momen­to dell’agonismo?
«Poco dopo. Ho fatto i primi corsi con la Società Vela Oscar Cosulich a Monfalcone. Alla fi­ne del corso introduttivo di quindici giorni ho partecipato a due o tre giorni di corso pre­mio per perfezionarmi e da lì in pratica è cominciato tuttol’iter. Subito dopo i miei mi hanno re­galato una barchetta (un Opti­mist in legno) e così ho comin­ciato subito dall’inverno suc­cessivo a fare qualche piccola regata prima a livello locale, poi interregionale. Quindi na­zionale e internazionale».
Allenamenti duri, volontà e una grande passione...
«Sì. Per quanto riguarda le classi olimpiche si fatica un sac­co e qui­ndi la preparazione fisi­ca a terra è fondamentale. Ci so­no s­edute di fondo che consisto­no in un’ora o più di corsa. Que­sta fase dell’allenamento può essere anche di nuoto o di bici­cletta. Poi ci sono un paio d’ore di palestra al giorno per riusci­re a rafforzare la massa musco­lare. È ovvio che le sedute gior­naliere a terra si riducono se uno esce molto in mare».
Perché proprio la classe Yn­gling, che l’ha portata alla sfi­da olimpica di Pechino?
«Prima di allora andavo su una barca monoposto. Ero quindi completamente autono­ma per gli allenamenti sia a ter­ra sia in mare. Era una sfida con­tro se stessi. Poi l’Isaf (organi­smo internazionale della fede­razione vela) ha introdotto lo Yngling come classe olimpica e… m’è venuta voglia di rimet­termi in gioco, non da sola, ma avendo a disposizione un equi­paggio. Io ho avuto il ruolo di timoniere, con Francesca Sco­gnamillo di Livorno (centrale) e Giulia Pignolo di Trieste (pro­diera). Questo tipo di imbarca­zione è classe olimpica solo a partire da Atene 2004».
Quali sono le qualità di un ti­moniere che vuole vincere?
«Deve essere una persona si­cura di sé, soprattutto per le de­cisioni in gara. Deve avere una mente “geometrica” per tenere sotto controllo tutto il campo di regata e capire subito che cosa sta succedendo. Ciò richiede at­tenzione ai dettagli, profonda conoscenza della meteorolo­gia, della strategia di regata, del­la tattica, ma anche delle poten­zialità del mezzo e dell’affiata­mento dell’equipaggio».
L’agonismo fa crescere...
«La vela è uno sport formati­vo. Gli allenamenti e la gestio­ne del mezzo responsabilizza­no molto. S’impara a essere estremamente resilienti, ad or­ganizzarsi bene, a relazionarsi con le altre persone e questo è utile non soltanto nello sport, ma soprattutto nella vita. Nella nostra regione stanno lavoran­do bene per diffondere la prati­ca sportiva nelle scuole, ma non solo per gli sport nautici. Un’esperienza sportiva è da ga­rantire a tutti. In qualsiasi cam­p­o della mia vita ho sempre cer­cato di migliorarmi grazie alla voglia di affrontare nuove sfide. La vela mi ha dato spesso la sod­disfazione di aver vinto, di aver giocato ancora una volta con gli elementi e di averli capiti e ri­spettati. È un gioco affascinan­te che t’intriga e ti coinvolge co­me fosse una droga. Una droga fatta di sale e sole, di vento tra i capelli e di un grande senso di libertà e di serenità».
Vela è bello, ma uno sport an­cora poco diffuso in Italia.
«È comunque uno sport mi­nore, ma ciononostante ha una discreta diffusione anche gra­zie alle nostre lunghe e straordi­narie coste. Resta però uno sport d’élite.

Ci sono tanti ragaz­zi che partecipano alle scuole di vela ma c’è un tasso d’abban­dono elevato perché spesso le società non sono in grado di so­stenere l’acquisto dell­’attrezza­tura tecnica necessaria e di con­seguenza sono le famiglie che devono sobbarcarsi tutte le spe­se e questo fatto seleziona in partenza. Davvero peccato».
(1- continua) 

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