(...) l'insalata della vita senza prenderci troppo sul serio». Resti un po' così, lasci il punto sospeso che c'è da dirimere un'altra trama. Il triangolare è formidabile, ma è la faccenda dei pomodori a far drizzare le antenne all'Italia tutta. Tant'è che i lettori di Repubblica intervengono, sui pomodori naturalmente. Giurano che i loro hanno il sapore di una volta. Da Salerno, da Belmonte e da Trapani, ma potrebbe essere il paese qualunque di un contadino qualunque che continua a mettere le sue sementi e assaggiare la terra. Divagazioni social-sentimentali con un retrogusto di fantaeconomia. Fermo lì. Zoom sui pomodori di Cervo, sulla polpa tra lingua e palato. Te lo faranno assaggiare uno, no? Ti manca il termine di paragone di allora, certo, ma hai la presunzione che quel gusto lì, («un tempo la polpa, il succo e il colore passavano al cervello, irrorandolo di sé») lo riconosceresti. Arriva da lontano, sopito e confuso. In quel ponente ligure di spiagge, casinò e festival lo cerchi a Cervo, nelle creuse del suo centro storico raggomitolate in discesa libera sul mare. Il Belvedere ti abbaglia e il Castello dei Clavesana ti annulla la memoria gustativa. Il rondò dei vicoli stretti ti trascina alla Chiesa dei Corallini, enorme per quel pugno di case a ridosso.
A Giuseppe Raimondo, assessore al turismo, non gli par vero che i pomodori di Citati gli consentano di mostrare quanto può Cervo. Ti permetti: Assessore, i pomodori... «Quanta fretta, ci arriviamo. Vogliamo usarli come pretesto?». Pacato il professore Raimondo. Lo incalzi. Ma Citati qui viene? «Non lo vedono dagli anni '50. Abitava a Palazzo Viale». Però di Cervo racconta... «Già». Ha ragione lui sui pomodori? Ma figurati se l'assessore entra in polemica. Ti ha deliziato riempiendoti occhi e taccuino, ma adesso inforca lo scooter che la risposta vuol dartela sul campo. Via all'azienda agricola di Antonio e Maria Scarato, 78 anni l'uno per l'altra, 50 di matrimonio e tre serre da mille metri quadri l'una con impianti d'irrigazione a goccia dedicate al pomodoro di Cervo. La «marmanda», costoluto e rotondeggiante, rosso da scandalo. «Mica la marmanda riviera, eh, che è una varietà da selezione» butta lì Antonio, fazzoletto in testa annodato agli angoli e mani da terra. Ti dice che fanno tutto loro con i figli Stefano e Giorgio. Dal 1963. Il requiem di Citati non l'hanno letto, masticano dialetto, la sveglia è alle cinque e i giornali li usano poi per incartare le uova.
«I semi sono i nostri. Quelli di allora. Li scegliamo dalle piante con le pigne più vicine. Una sterilizzata e poi nei contenitori aspettando che raggiungano 10-12 centimetri. Quindi li trapiantiamo in serra. A dire il vero le facciamo innestare a Noto, in Sicilia. Mandiamo giù i semi e ci ritornano le piantine, che così resistono alla fusariosi». La prima raccolta ad aprile, fino a tutto giugno. Setto-otto quintali al giorno. «Una volta diciassette. Carichiamo gli autocarri e vendiamo ai mercati generali di Torino. A Milano ci hanno fregato, aspettiamo i soldi ancora adesso. Le primizie ce le pagano 3 euro al chilo, a scalare fino ai 10 centesimo a giugno, a fronte d'una spesa di diecimila euro». Lo ascolti e realizzi. Lentamente. Le serre vuote, tempo massimo giugno. Sicilia. Mercato di Torino. Uno da assaggiare no, eh? Maria sorride dolcissima, «è arrivata un po' tardi. Abbiamo qualche piantina tardiva di cuor di bue... Ma se l'anno prossimo a maggio ci viene a trovare, sentirà il gusto...». Ti siedi sullo sgabello che dirti delusa è un eufemismo. Raimondo, professore-contadino, annuisce soddisfatto. T'ha dimostrato che i pomodori di Cervo, la marmanda d'una volta, eccome se esiste ancora. Non resta che fidarsi. E se vuoi mangiarli allunghi fino a Torino. Quisquiglie. «Magari qualcuno di ritorno lo troviamo anche qui» abbozza l'assessore.
T'è rimasta una voglia di pomodori di Cervo che lavori di transfert. Ripensi a Citati, alle schermaglie d'artista e alle proiezioni concettuali e agresti del «frutto supremo del Mediterraneo».
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