Il gatto di nome Bianco miagola continuamente. “E’ incavolato perché sono stata via un giorno”. Un giorno in cui Antonia Klugmann, triestina, 45 è andata a Milano al Teatro degli Arcimboldi sapendo di dover ritirare un premio, “pensavo uno tra i tanti” e di è ritrovata a piangere come un vitello sul palco dopo essere stata la prima che donna ad avere ricevuto i cinque cappelli. Ora Antonia è tra i primi otto chef italiani, come Bottura, come Romito, come Crippa, come Cracco. “Sono stata sopraffatta. Sono stata in silenzio per tre quarti d’ora, i miei colleghi mi dicevano: guarda che dovresti sorridere, guarda che dovresti essere felice. Diciamo che ho avuto una reazione un po’ alla Sinner”.
Forse perché dicono che sei un po’ severa…
“Ma no, io sul palco di solito sono a mio agio. Severa lo sono, ma con me stessa, esigo moltissimo da me. Ma la questione non è il premio ma lo svegliarsi la mattina con l’idea che si deve fare meglio del giorno prima. Ho questa grande fortuna che io godo profondamente del mio lavoro. Il fatto di farlo alle mie condizioni, nel luogo che ho scelto, sembra una banalità ma è veramente una conquista quotidiana”.
Però la terra da cui arrivi severa lo è davvero. Facile avere successo a Milano o a Roma…
“Io ho vissuto a Milano per la mia università e ho lavorato a Venezia per tre anni, e ho capito che c’è una differenza nello scegliere un luogo che di per sé non è una destinazione, perché devi attrarre il cliente con il tuo lavoro. Ma la fortuna è che così puoi creare un luogo che ti corrisponde, in cui le persone vengono apposta. E’ una montagna che scali e quando sei in cima dici: però niente male”.
Il tuo ristorante, l’Argine a Vencò a Dolegna sul Collio, ha dieci anni…
“Sì, avverrà a dicembre”.
E festeggerete?
“Mia sorella che lavora con me voleva che in qualche modo festeggiassimo ma è capitato che lei abbia avuto un bambino l’altro ieri e sono diventata zia. E’ stato surreale, sono l’unica che ancora non ha visto mio nipote, Lucien Reverchon Klugmann”.
Saranno contenti i maestri quando dovranno fare l’appello.
“Sappiamo già che sarà un bambino molto preso in giro per il cognome”.
Quindi doppia festa.
“Ma no, non celebreremo in modo plateale”.
Come è cambiato in dieci anni il tuo ristorante e come sei cambiata tu?
“Il mio percorso è stato un percorso coerente, in ogni ristorante in cui ho lavorato, che fosse mio o no, la mia cucina ha seguito esattamente la trasformazione mia, chi sono io, la mia relazione con l’ingrediente locale. L’Argine però è cresciuto tantissimo, abbiamo aperto con due dipendenti ora ne abbiamo 15/16 per 22/24 coperti a servizio. Per un ristorante familiare di prima generazione è tanta roba”.
E la tua cucina come si è evoluta?
“Vedi, io non ho mai avuto piatti iconici, ed è sempre difficile descrivere la mia cucina, perché pretendo che evolva continuamente. La cucina sono io in quel momento”.
Parliamo di sostenibilità. Che cosa dire di un concetto di cui si parla tanto e spesso a vanvera?
“Esiste una relazione molto importante tra il selvatico che ci circonda e quello che è la nostra vita quotidiana, tutto è connesso. La comprensione di quello che accade nell’ambiente ti fa capire come la produzione di cibo ne condizioni i meccanismi. Questa consapevolezza io ce l’ho ben chiara, so anche che il mio ristorante non è sostenibile, come la gran parte degli altri, ma mi occupo di fare del mio meglio”.
E qual è il tuo meglio?
“Dico sempre che noi abbiamo in mano un sassolino. Lo getti nell’acqua cercando di non sprecare risorse, anche umane, e speri che i tuoi collaboratori, che sono quelli che lavoreranno quando tu sarai in pensione, che porteranno avanti la cucina italiana, imparino qualcosa. Poi si sono i clienti, a cui io dico sempre ai miei camerieri di non rompere le scatole con la sostenibilità, ma se chiedono puoi spiegare loro che quella seppia così buona non è pescata con lo strascico, che usiamo solo animali che abbiano vissuto bene. Sono cose complesse”.
A volte percepite come troppo complesse dai clienti.
“Io certamente non sono interessata al green wash, è un percorso personale che ha a che fare con la comprensione della realtà. Di sicuro non voglio essere Maria Antonietta, in cima alla torre, che si preoccupa della brioche, voglio che la gente sappia che io sia dentro la realtà e mi sento responsabile di quello che vedo e di quello che faccio”.
Ma tu in cucina come ci sei finita?
“Sono arrivata alla cucina per vie traverse, i miei non facevano ristorazione, erano medici. A 14 anni andavo a casa da scuola e cucinavo per mia sorella che ha quattro anni meno di me. Poi sono andata a Milano a fare Giurisprudenza”.
Giurisprudenza?
“Andavo molto bene, ma sentivo di non avere quella passione che ti spinge a fare le cose come vuoi. Nel frattempo cucinavo per i miei compagni di università, guardavo il Gambero Rosso come una matta, poi ho fatto un corso di cucina e ho capito che questa cosa mi faceva svegliare la mattina felice e come una pazza”.
E quindi?
“E quindi ho lasciato l’università per fare la cuoca. Sono andata da un giovane cuoco di talento nella mia regione e gli ho detto: vorrei fare la stagista, la commis, non so niente e vorrei imparare. Dopo una settimana ho pensato lucidamente: questo è quello che voglio fare nella mia vita. Tutti in cucina, ho scoperto dopo, avevano scommesso che avrei lasciato subito”.
Che grado di compromesso hai nella tua cucina tra i tuoi pensieri e il mercato, il desiderio del cliente?
“Sincera? Questa è la cosa più importante della mia vita, io presento al cliente quello che voglio presentare al cliente, e quello che vorrei mangiare se fossi seduta al tavolo. Quindi niente compromessi. Il cliente è il pagante, è la moneta della mia libertà. Al contempo sono anche molto infantile”.
Infantile? E in che modo?
“Nel gioco, nel piacere della costruzione dei piatti, nella libertà che mi prendo. Un tempo ero molto gelosa della mia creatività, oggi mi piace confrontarmi con i miei collaboratori sempre più bravi, ascolto le persone che stimo”.
Anni fa ti chiesi se indulgevi al junk food e ti rifiutasti di rispondermi…
(Ride) “No, non mangio junk food, non sono ipergolosa, e poi da cinque o sei anni sono abbastanza in dieta e mi controllo molto. Il mio guilty pleasure è il carboidrato, per una fatta di pane caldo appena sfornato, con l’olio o del parmigiano, o per una pasta al pomodoro vado via di testa”.
E un guilty pleasure nella vita?
“Il tennis. Sono una fissata, è una cosa che facevo da bambina, ho ricominciato circa tre anni fa e sono molto costante, vado tre volte a settimana”.
L’Italia ora è il Paese del tennis…
“E infatti mi vergogno di dirlo, sembra che vuoi fare la cretina”
Cosa ci trovi, nel tennis?
“E’ il gioco del diavolo, quando sei sul campo non puoi avere la testa altrove e per il cuoco è molto sfidante. Vado a giocare tra il pranzo e la cena e i primi tempi continuavo per un po’ continuavo a pensare a quello che avevo fatto a pranzo. Ora sono una macchina, entro in campo e dopo trenta secondi mi sono dimenticata du tutto”.
Sei brava?
“No, del resto avevo smesso per 25 anni, però mi diverto molto. Non faccio tornei perché sono nel fine settimana e io lavoro. E come in cucina mi arrabbio con me stessa e mai con l’altro giocatore, certe volte sbatterei la testa contro il muro come Rublev”.
Colpo migliore?
“Il mio maestro direbbe forese il rovescio incrociato, in realtà io voglio migliorare il dritto, in questo momento ho qualche problema con la rotazione”.
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