La battuta che circola in queste ore è una sferzata sul destino politico di Gianfranco Fini: non si è mai visto un partito perdere voti il giorno del suo congresso costitutivo. I sondaggi dicono che Futuro e libertà è sceso al 3,7 per cento. I dati sembrano perfino troppo ottimistici. Quella che doveva essere la destra che piace alla sinistra è un aborto. Si incontrano, si battezzano, il capo sceglie come profeta il suo uomo più antipatico, e il Fli è già sbrindellato. Le colombe volano via e organizzano la diaspora dei dissidenti. Si sono rese conto che il Pdl era un porto meno circense. Prima sono fuggiti gli intellettuali, ora tocca a gente come Urso e Viespoli. Nessuno si fida più di Fini. Non capiscono come si possa lasciare il partito in mano alle furbate di Bocchino e al fondamentalismo di Granata. Sono delusi, rammaricati, con (...) (...) una buona dose di rimpianti negli occhi e l’amarezza di chi per Gianfranco ha scommesso una carriera politica. Il risultato è imbarazzante.
Il Fli ha perso tutte le battaglie. È stato frettoloso nelle scelte. Ha provato a sfiduciare il governo senza avere in tasca i numeri ma con un’arroganza senza giustificazioni. Si sono fatti usare, inebriati dagli applausi che arrivavano dai salotti di sinistra e dalla benedizione fatale di Repubblica. Quando si sono accorti di essere solo uno strumento era troppo tardi. Gli applausi ai finiani erano gli stessi regalati a Spatuzza o al figlio di Ciancimino. Poi le luci si sono spente e il Fli è apparso quello che è, un partito marginale, con la sola prospettiva di fare la ruota di scorta a Casini. I finiani come servi sciocchi dell’Udc. Niente di più o di meno dell’Api di Rutelli.
Fini non ascolta. Agli uomini della diaspora risponde con un secco: «Il Fli vuole rifondare il centrodestra. L’organigramma è in linea con questa volontà. Quindi tutti i rilievi sono infondati». Buonanotte. A questo punto ci sarà una guerra tra bande e dopo la scissione. Il prossimo congresso del Fli si farà in una cabina telefonica. L’alternativa è liberarsi di Fini e tornare a casa. Non sono pochi i dissidenti. La prova arriva dalla mossa, intelligente, di Pasquale Viespoli. Fini lo aveva nominato capogruppo a Palazzo Madama. Lui si è dimesso. Un quarto d’ora dopo è stato rieletto all’unanimità dai senatori. Quei quindici minuti cambiano tutto. Il Viespoli nominato da Fini è ostaggio del padroncino. Il Viespoli eletto risponde solo ai senatori. Particolare interessante: la linea politica di Viespoli non è la stessa di Fini. Il capogruppo ha avuto un mandato preciso: «Assicurare il posizionamento politico del partito nel centrodestra». Questo significa niente alleanze elettorali con il Pd. Non alle politiche e neppure alle amministrative. Le colombe fanno capire che si sentono di destra. Non sono diventati all’improvviso fondamentalisti dell’antiberlusconismo. Come ha detto un parlamentate post-finiano a Montecitorio: «Ci sarà una differenza tra il Fli e Di Pietro. Non basta un ordine per farci digerire Santoro».
L’ingenuità dei finiani dissidenti è stata fidarsi di Fini, una giacca senza morale. La coerenza non gli appartiene. Non si fa scrupolo a restare incollato alla poltrona di presidente della Camera. Non finge neppure più di essere super partes e liquida con uno sguardo di disprezzo chi gli ricorda che è stato nominato da una maggioranza che ora vuole affossare. È lo stesso Fini che nel ’94, dopo il ribaltone, chiedeva le dimissioni di Irene Pivetti. Così: «La terza carica dello Stato deve essere super partes, non può dire ora non parlo come presidente della Camera. È stata eletta da coloro che ritiene irresponsabili, traditori e persino attentatori della democrazia.
Ma adesso anche i finiani sanno chi c’è sotto la maschera. La faccia di Fini ha questa fortuna: è senza memoria. Gli scivola tutto.
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