Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, colpisce nel mondo circa 24 milioni di persone, ovvero un anziano su quattro con più di 80 anni. Questo numero è destinato a raddoppiare nei prossimi 20 anni. Stiamo parlando del morbo di Alzheimer, una malattia neurodegenerativa che comporta una graduale e irreversibile perdita delle funzioni cognitive. Questa forma di demenza solitamente insorge in età avanzata ma esistono forme rare che interessano soggetti giovani di età compresa fra i 30 e i 60 anni. La patologia, che prende il nome da Alois Alzheimer il neuropatologo e psichiatra tedesco che la descrisse per la prima volta nel 1906, è caratterizzata da atrofia cerebrale, particolarmente marcata nell'ippocampo e nell'amigdala.
Inoltre all'esterno dei neuroni si evidenzia la presenza di placche del peptide beta-amiloide. All'interno degli stessi, invece, sono stati individuati ammassi neurofibrillari di proteina tau iperfosforilata. Il morbo di Alzheimer comporta una notevole sofferenza non solo in chi ne soffre, ma anche nei caregiver ovvero quelle persone che si prendono cura dei pazienti. Gli scienziati della Filandia Orientale, con un recente studio pubblicato su Clinical Gerontologist, hanno infatti scoperto che oltre il 60% dei caregiver sperimenta sintomi di depressione lieve al momento della diagnosi. In un terzo degli stessi la sintomatologia peggiora nel corso di cinque anni.
Le cause del morbo di Alzheimer
Attualmente l'eziologia del morbo di Alzheimer è sconosciuta, tuttavia si ritiene che la sua insorgenza sia l'esito della combinazione di fattori genetici e ambientali. Da un punto di vista genetico è possibile affermare che la malattia è associata alla mutazione di alcuni geni: APOE-e4 localizzato sul cromosoma 19, APP localizzato sul cromosoma 21, PSEN1 localizzato sul cromosoma 14 e PSEN2 localizzato sul cromosoma 1. I ricercatori dell'Università della California, con uno studio pubblicato su Science hanno identificato nuovi geni collegati alla possibilità di sviluppare la patologia.
Per la precisione il team ha testato contemporaneamente 5.706 varianti genetiche in 25 loci associati al morbo di Alzheimer e in 9 loci associati alla paralisi sopranucleare progressiva. Dai risultati sono emersi i nuovi geni incriminati, ovvero C4A, PVRL2 e APOC1. Tuttavia non devono essere trascurati altri fattori di rischio, come: l'età avanzata, il sesso femminile, la sindrome di Down, il declino cognitivo tipico della vecchiaia, i traumi alla testa. Ancora la sedentarietà, l'obesità, il fumo di sigaretta, l'ipertensione, l'ipercolesterolemia e il diabete di tipo 2.
I sintomi del morbo di Alzheimer
Le manifestazioni del morbo di Alzheimer variano a seconda delle fasi della malattia, ossia iniziale, intermedia e finale:
- Sintomi della fase iniziale: piccoli problemi di memoria a breve termine, ripetizione delle domande, lievi cambiamenti di personalità, passività, mancanza di iniziativa, minime difficoltà di linguaggio, di calcolo e di ragionamento;
- Sintomi della fase intermedia: problemi di memoria a lungo termine, atteggiamenti ossessivi, sbalzi d'umore, ansia, depressione, perdita di parte delle abilità cognitive, disorientamento spazio-temporale, insonnia, episodi di comportamento paranoico, allucinazioni uditive;
- Sintomi della fase finale: compromissione totale delle capacità cognitive, delirio, dimagrimento, difficoltà di deglutizione, perdita del controllo motorio e della funzionalità intestinale e vescicale.
Una delle domande più frequenti che ci si pone è questa: si può prevenire il morbo di Alzheimer? Non esiste una risposta precisa tuttavia, poiché la patologia può essere provocata da un danno vascolare, gli esperti suggeriscono di correggere i fattori di rischio dei disturbi vascolari mediante il rispetto di alcune regole:
- Svolgere attività fisica aerobica almeno tre volte a settimana;
- Seguire una sana dieta mediterranea;
- Mantenere attivo il cervello.
Un'altra buona notizia giunge da uno studio condotto dagli scienziati dell'Università di Kaunas che hanno sviluppato un modello basato sull'apprendimento profondo in grado di prevedere l'insorgenza della malattia osservando le immagini del cervello. La precisione è superiore al 99%.
Il morbo di Alzheimer e la proteina Medin
La ricerca non si ferma e compie passi da gigante. Basti pensare agli scienziati del Centro tedesco per le malattie neurodegenerative che hanno scoperto il legame tra la proteina Medin e il morbo di Alzheimer. Quest'ultima si deposita nei vasi sanguigni del cervello dei pazienti e si aggrega alla proteina beta-amiloide. Lo studio, condotto dal dottor Jonas Neher, è stato pubblicato su Nature. Medin appartiene al gruppo delle proteine amiloidi. Di queste la più nota è la beta-amiloide che si aggrega sotto forma di placche nel tessuto cerebrale e nei suoi vasi sanguigni danneggiandoli. Nonostante la proteina Medin fosse conosciuta da oltre 20 anni, non è mai stata oggetto di ricerca.
Due anni fa il team è giunto alla conclusione che la proteina Medin è presente nel cervello dei topi anziani. Più i roditori invecchiano, più il suo accumulo si fa consistente. Inoltre quando il cervello è attivo e il suo afflusso di sangue aumenta, i vasi con i depositi proteici si espandono con maggiore lentezza, determinando una diminuzione della quantità di ossigeno e di sostanze nutritive. Con le loro ultime indagini gli studiosi sono stati in grado di dimostrare che la proteina Medin si accumula in maniera più marcata nei vasi sanguigni cerebrali se è presente la proteina beta-amiloide.
Il nuovo bersaglio terapeutico del morbo di Alzheimer
In un primo momento gli scienziati hanno colorato sezioni di tessuto cerebrale sia di topi che di soggetti deceduti a causa del morbo di Alzheimer al fine di rendere visibili le proteine specifiche. Ciò ha consentito loro di dimostrare che la proteina Medin e la beta-amiloide co-aggregano, ovvero formano depositi misti. L'auspicio è che questa scoperta possa a breve rappresentare una speranza per lo sviluppo di un nuovo trattamento. Aferma Neher: «La proteina Medin potrebbe essere un bersaglio per prevenire il danno vascolare e il declino cognitivo derivante dall'accumulo di amiloide nei vasi sanguigni del cervello».
Come abbiamo già accennato, gli esperti sottolineano ancora una volta che il morbo di Alzheimer è altresì promosso da alterazioni vascolari,
ossia ridotta funzionalità o danni ai vasi sanguigni. Ora è fondamentale capire se gli aggregati di proteina Medin possono essere rimossi terapeuticamente e se tale intervento ha effetto concreto sulle prestazioni cognitive.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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