Ieri mattina quel film su Rai3, come confinato in un ghetto. Ieri pomeriggio la cerimonia a Treviglio, messa di suffragio, ricordi, commozione. La sintesi di Moratti: «Giacinto è mancato, mancherà tantissimo sempre. Può sembrare istintiva come sensazione, ma è la realtà, è la sostanza». Ieri ricorreva un anno dalla morte di Facchetti. Un anno importante, decisivo per lInter che «il capitano» ma anche «il presidente» aveva contribuito a costruire. Facchetti non ha visto niente, almeno quaggiù. Ma tutto ciò che si è detto, scritto, ricordato, forse lo avrebbe imbarazzato.
Insomma, Facchetti non era il tipo da gradire il «santo subito» che tanti hanno provato a costruirgli intorno. In questo senso rimette un po di ordine il libro «Lo chiamavano Giacinto», scritto da Massimo Arcidiacono (Melampo editore, euro 13). Favola dolceamara di un terzino cannoniere in cui si ricorda il bello ma anche il brutto. Gianfelice, figlio di Giacinto, ci lascia proprio nelle ultime pagine, dicendo: «Anchio sono daccordo che non si diventa santi per il solo fatto di essere morti. Mio padre aveva i suoi pregi e, come tutti, i suoi difetti».
Perché Facchetti era quello che Giovanni Arpino amava come un fratello e come un simbolo: «Vorrei che ogni famiglia avesse un figlio come lui». «Eroe chiaro e trasparente», scriveva in quel libro magico che fu «Azzurro tenebra». Ma Facchetti è stato anche lamico-avversario di Mazzola, con il quale fu amicizia eppoi freddo rapporto quando i due lottarono per una scrivania.
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