Non poteva finire che così, a meno di non mascariare per sempre il governo Letta compromettendone l'immagine entro e fuori i confini. Non poteva finire che così, con la resa di Josefa Idem, fisico atletico sì, ma non così robusto da poter reggere più di tanto alla ironica invettiva «Medaglia d'oro, faccia di bronzo» che meglio riassume il giudizio popolare su di lei. Colpevole due volte. Per aver fatto - «inconsapevolmente», ma sì, ma certo, ma come no - la furba. E per essersi difesa come si è difesa, attingendo a tutto il campionario dell'arroganza, della sfacciataggine, della saccenza e della impertinenza di cui dispongono i «sinceri democratici» quando presi in castagna.
Nessuno come Josefa Idem nel suo cercar di rintuzzare gli addebiti ha saputo esprimere la condizione di «geneticamente diversi» che è patologica alla sinistra. Per l'ex ministra le accuse sono insulti, le critiche sono offese, le mancanze sono distrazioni. E nemmeno volontarie, ma causate dall'impegno atletico «per il quale voi mi avete applaudito», quasi a dire, insomma, che la colpa è nostra. Che poi, il fattaccio che ha combinato, la truffarella allo Stato, sarebbe magari da passarci sopra se l'interessata - canoista sì, ma anche veemente militante di sinistra - non l'avesse menata per mari e per monti con il rigore, la trasparenza, le mani nette, la scrupolosa osservanza delle regole, la correttezza e l'integrità morale avanti tutto. Se non avesse dato fortemente a intendere, una volta ministra, che con lei nei dintorni di Palazzo Chigi profittatori e parassiti di Stato avrebbero chiuso.
V'è poco di più giusto e salutare, al mondo, che togliere la maschera (d'ipocrisia) ai bacchettoni in servizio permanente. Ai tartufi usi a predicar bene e a razzolar male. E così è andata per Josefa Idem che come asso di bastoni della sua piccata difesa buttò giù un: «In Germania nessuno si dimette per una faccenda come la mia». Dovendo subito dopo farsene una ragione d'esser in Italia.
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