I linguisti, e molti che non se lo possono permettere, lo chiamano il sottotesto. Tu leggi ciò che accade, e apparentemente i fatti si allineano. Formano un intero comprensibile. C'è logica, ragazzi. E la chimica delle emozioni segue questa logica. Il Delinquente è a terra. Tra poco avrà ai polsi le manette o qualcosa di simile. La vita penitenziaria diventa bella. La legge è uguale per tutti. Anche i ricchi piangono. E via con le filastrocche dell'impresentabile invidia, della spietatezza dei mediocri. È il loro momento. Ci sono spoglie da spartire. La legge è uguale e la vita è bella.
Poi emerge un altro testo, quello di sotto. C'è scritto, e si legge chiaro, che il Delinquente ha occupato la tua testa per vent'anni, forse trenta. Che ti vuoi liberare di te più che di lui. Che ha un sorriso simpatico, modi buffi ma suadenti. Che si è cucinato la vita in mille modi, attraversando la realtà con spirito surreale, talvolta, e con un pragmatismo magico, tal'altra. Che è un elder statesman, una persona di esperienza incredibilmente vasta. Schiacciarlo sulla sua caricatura è impossibile. Perfino una persona di gusto e intelligente come Renzo Piano, affidandosi a un idiota qualsiasi, a un giornalista collettivo, è sembrato un bischero quando ha parlato di lui, si è affidato al giudizio del mondo. Dice il brand senatoriale che di lui parlano male. Sarà abbonato al Financial Times dei momenti peggiori, chissà. Non possiede l'autonomia intellettuale per ragionare di suo. Disegna grattacieli, peccato, finisce in bassezze inaudite. Ma è parte anche lui del sottotesto. Forse non è invincibile, come diceva di sé, con il poncho in un passaggio satirico di Antonio Ricci, memorabile prime time. Ma è incancellabile. Nell'epoca della gomma pane digitale, quando tutto è sempre più effimero e vano, quello lì è incancellabile. Sta lì. È ormai inafferrabile il suo profilo, il suo curriculum. Chiunque nel sottotesto può giocare.
Un campione dell'establishment intellettuale e civile, il figliolo di Gaetano Martino, Antonio, può arrivare a dire l'impronunciabile con il sorriso anche lui sulle labbra: «Chi froda il fisco e mette via soldi che il pubblico sperpererebbe senza pietà è un patriota». Un altro inglese spiritoso e fair mi ha detto: «Tipicamente italiano. Prendi il maggiore contribuente e lo incastri per evasione fiscale». Chissenefrega del Financial Times, no? Non voglio nominarlo, non ne ha bisogno. Ha indispettito la regina Elisabetta chiamando a voce alta il nome di Obama, «Mr Obamaaaaaa!», quel pusillo incapace che fa retorica e prende schiaffi sulla scena del mondo. Fece cucù alla Merkel, che è probabilmente alla vigilia di una larga coalizione, una specie di Enrico Letta. Ha regnato. Al governo, all'opposizione, con e senza le televisioni, per due decenni. Nessuno è stato suo suddito e sottoposto fedele come i suoi arcinemici, come coloro che lo hanno eletto ad Arcinemico, e lo soffrono da pazzi, una malattia, uno stato morboso della mente e del cuore. Ha inventato l'impossibile, l'utopico cuoco alla guida dello stato, il privato che si fa pubblico e vince mille referendum nel paese dei conigli, dei piccoli profittatori, dei falsi contribuenti di una minceur così tremendamente italiana. La sua grandeur squaglia le pietre. Gli snob non lo tollerano. I grandi signori dello spirito lo adorano, anche in segreto, senza mischiarsi, ma lo adorano. Ne ho avuto nel tempo mille testimonianze.
Certo quei gran signori li devi cercare fuori delle newsroom, fuori dei talk show, fuori delle accademie e delle riviste ideologiche. Fuori della politicuzza miserabilina. Maverick chiama maverick. Una persona che eccede ha per sé l'eccedenza, che è una forma di eccellenza. Magari poi ce la fa. Ha risorse più sottili di quanto non immaginino politologi grossolani. Ha per sé il cinismo e la robusta intelligenza degli italiani. Non si può aver trascorso tanti anni nella festa dell'Ego, condivisa e generosamente o libertariamente distribuita a milioni di persone comuni vogliose di riscatto, e poi finire appeso per i piedi. Non si dà in natura.
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