Da una parte il partito della lotta, dall'altro il partito del governo. In mezzo un leader, Silvio Berlusconi, che vorrebbe salvaguardare l'unità del Pdl ma non a tutti i costi. E che trascorre un martedì di inizio autunno più caldo che se fosse agosto a lavorare per evitare la scissione del Pdl tra i falchi e i condor travestiti da colombe. Una rottura che appare inevitabile ma che il Cav spera ancora di scongiurare.
Il sentiero è stretto, strettissimo. E solo un leader con un carisma infinito può cercare di percorrerlo. Da un lato l'esigenza di mostrare i muscoli con Palazzo Chigi pretendendo un segno di discontinuità nei confronti di un esecutivo da cui Berlusconi si sente abbandonato, non tutelato, malsopportato. Dall'altro evitare che di spaccare in due il partito e di accollarsi anche solo in parte la responsabilità di una crisi di governo che presenterebbe un conto salatissimo agli italiani.
Lo psicodramma ha inizio con un primo vertice a Palazzo Grazioli. I toni sono accesi, Alfano conferma di non voler staccare la spina a Letta (e quindi a se stesso in quanto vicepremier) e fa capire che in tanti sono pronti a seguirlo. Berlusconi non può e non vuole credere che siano in tanti i potenziali traditori, ma lancia la sua proposta. Alfano, scortato da Gianni Letta, maestro di mediazione, deve recapitare a Enrico Letta le condizioni per una permanenza del Pdl all'interno del governo: un'apertura esplicita al riconoscimento dell'irretroattività della legge Severino sull'incandidabilità dei condannati; un rimpasto del governo che dia rappresentanza a Palazzo Chigi anche ai falchi; e su tutto la rinuncia di Letta alla conta parlamentare prevista per oggi per evitare ogni agguato.
Letta senior e un Alfano poco convinto si recano a Palazzo Chigi e presentano a Dario Franceschini in assenza di Letta junior il pacchetto antiscissione. Incassano il prevedibile rifiuto del portavoce di giornata del premier a ogni tipo di trattativa e tornano da Berlusconi per riferire. È a questo punto che i sentimenti del Cav virano verso l'amarezza. Soprattutto nei confronti del delfino che sembra pronto ad abbandonarlo. Anche se Alfano non parla mai apertamente di scissione. Il suo ambiguo mantra per tutto il giorno è: «Tutto il nostro partito deve votare la fiducia al governo Letta, senza gruppi e gruppetti». Insomma, tutti uniti ma dietro me, non al Cav. Una prova di arroganza che spinge Berlusconi nelle braccia dei falchi che lo invitano ad andare avanti per la sua strada e a dare le chiavi di Forza Italia alla figlia Marina, essendo ormai il Pdl un contenitore pieno di vipere. E arrivano anche le parole recapitate a Tempi, molto critiche con Letta e Napolitano, a sancire il cambio di rotta.
I numeri dei presunti scissionisti si autogonfiano con il passare delle ore. A un certo punto Carlo Giovanardi, governista entusiasta, spara: «Siamo anche più di 40, e siamo fermi nel voler mantenere l'equilibrio di governo». E poi: «Noi rimaniamo nel Pdl, sono gli altri che eventualmente se ne vanno. Se creano una nuova Forza Italia ci saranno due formazioni nel centrodestra». Da parte loro i fedelissimi del Cav smascherano il bluff di Alfano sull'unità: «Voterò la fiducia solo se me lo chiedesse il presidente Silvio Berlusconi», scolpisce Sandro Bondi. «Seguirò solo le indicazioni di Berlusconi, al quale esprimo totale vicinanza politica e personale», copia e incolla Daniele Capezzone. E Daniela Santanchè sfida il segretario: «Mi risulta che abbia chiesto la mia testa come condizione per mantenere l'unità del Pdl-Forza Italia. Gliela offro su un vassoio d'argento, purché non ci finisca quella del presidente Berlusconi».
Passano le ore, la temperatura resta torrida. I ministri Pdl (Alfano, Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Gaetano Quagliariello) fanno il punto a Palazzo Chigi. Lupi twitta da finto tonto: «Tutto il nostro partito deve votare la fiducia al governo». In serata Palazzo Grazioli torna ad affollarsi. Alla spicciolata arrivano dal Cav Renato Brunetta, Renato Schifani, Sandro Bondi e altri fedelissimi.
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