Vincere al fotofinish e cancellare con la gomma della propria supponenza l'opposizione. Governare un Paese spaccato in due e buttare nel cestino l'altra metà della mela. Spianare col bulldozer dell'ideologia le riforme fatte dalla precedente maggioranza. Fare man bassa di poltrone, pur di rimanere sulla poltrona per eccellenza, quella di capo del governo. Dividere per sopravvivere e mettere nell'angolo gli avversari per guadagnare qualche settimana o qualche mese, per dare ossigeno al più risicato degli esecutivi, appeso ai voti sempre più traballanti dei senatori a vita e degli esponenti più radicali di una maggioranza con addosso più colori del vestito di Arlecchino.
Se si guarda indietro al biennio del governo Prodi II non si può non notare che l'azione del premier è passata come la lama di un coltello sulla frontiera fra sensibilità diverse, acuendo quella separazione che oggi è una delle grandi malattie dell'Italia. Sinistra contro destra, laici contro cattolici, i salotti radical chic contro il Paese alle vongole. Due antropologie, due culture e un muro alto così che non è servito a proteggere la cittadella assediata dell'Unione. Che dopo una penosa agonia è arrivata al capolinea delle proprie contraddizioni. E Prodi ha dovuto dire ciao alla sua vita di premier.
Del resto, se si vince, come Romano Prodi nel 2006, per un pugno di voti, meno di 25mila e insomma se la metà meno lo zero virgola non sta con te, l'intelligenza dovrebbe aprire a spazi di mediazione. Con due alternative: costruire comunque una propria maggioranza, orientata dal centro a sinistra, ma dare poi voce, nel risiko delle cariche da spartire, ai perdenti; oppure scegliere coraggiosamente una soluzione alla tedesca e puntare dritti sulla grande coalizione. È il modello Merkel e Mister Prodi che in Europa la sua carriera l'ha fatta potrebbe pure virare in quella direzione. E invece no: il format emiliano prevede solo maggioranze bulgare e se le maggioranze sono invece millimetriche, pazienza.
Il buongiorno si vede dal mattino. Nei giorni in cui il governo Prodi sta per insediarsi si eleggono i vertici della repubblica. E L'Unione si vota da sola il nuovo capo dello Stato: Giorgio Napolitano supera a fatica il quorum e ottiene 543 voti con le schede bianche della Casa delle libertà. Gianfranco Fini è tranchant: «Unità non è indicare un presidente ma trovarlo».
Le due Italie non si parlano. E non dialogano nemmeno quando si tratta di stabilire i nomi dei due inquilini di Palazzo Madama e Montecitorio: al Senato con 165 voti va Franco Marini, alla Camera con 337 consensi si installa Fausto Bertinotti. In pratica un quasi pareggio diventa un saccheggio ai piani alti. Sia pure perfettamente legittimo.
Oggi dicono che Romano Prodi sarebbe il presidente della Repubblica di tutti. Le cifre appena elencate indicano che è stato il premier di alcuni. E il corpo a corpo fra le due anime non si è mai attenuato.
Il governo Prodi, sempre attaccato alla bombola d'ossigeno dei voti comunisti e sinistri, le tenta tutte per stare a galla. Presenta un disegno di legge che cerca di regolare i rapporti di convivenza: i Dico. I Dico sono oggetto di una vera e propria guerra nel Paese, laici contro cattolici, la Chiesa sulle barricate, persino pezzi della maggioranza contro altri spezzoni dell'Unione.
Un disastro che non va da nessuna parte e serve solo per esacerbare gli animi anche se lui, il premier, continua a ripetere: «Sono sereno».
In realtà è sempre più preoccupato perché, come un acrobata, deve accontentare tutti i vagoncini dell'interminabile treno di sigle che lo sorregge e così nel 2007 per tenere buono il fronte rosso dell'Unione compie una scelta sconsiderata: fa a pezzi la riforma Maroni, il famoso scalone che finalmente alzava l'età pensionabile da 57 a 60 anni, con 35 di contributi. Quella di Maroni era una delle poche azioni compiute per modernizzare il Paese.
Certo, spalmava le modifiche sulla legislatura successiva, ma segnava un passo in avanti. Il governo Prodi elimina lo scalone, ripristina gli scalini e fa perdere, secondo alcuni calcoli, 10 miliardi di euro nell'arco di dieci anni alle ansimanti casse dello Stato.
Guai su guai. Pure in politica estera, con troppe parti in commedia.
La maggioranza si dilania su tutto: dall'Afghanistan alla base americana di Vicenza. Con risoluzioni del centrodestra approvate a sorpresa, mentre quelle targate centrosinistra vengono bocciate dal «fuoco amico». Prima dell'inevitabile tutti a casa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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