Roma - Alla fine, è arrivata la sentenza della Consulta che può cambiare la vita politica italiana e infliggere a Silvio Berlusconi la sconfitta definitiva che non ha avuto dalle urne. Una bocciatura netta quella della Corte costituzionale, che con 11 voti contro 4 ha respinto il ricorso del leader Pdl per il legittimo impedimento (giudicato «non assoluto», in questo caso) che non ha consentito all'allora premier di partecipare all'udienza di primo grado dell' 1 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante Consiglio dei ministri.
«L'imputato presidente del Consiglio», per i giudici costituzionali, dopo aver concordato con il tribunale quella data, in seguito ad altri rinvii, non ha adeguatamente giustificato l' «assoluta» necessità di far slittare la riunione di governo già fissata, facendola coincidere proprio con il giorno dell'udienza. Nel palazzo della Consulta si è subito formata sulla posizione del relatore Sabino Cassese una «maggioranza bulgara», come racconta chi c'era. E nella camera di consiglio durata solo un'ora e mezzo non c'è stato spazio per la tesi della minoranza: in realtà, agli atti c'era una precisa spiegazione dei legali di Berlusconi, sulla indifferibilità della discussione sul ddl anticorruzione, che l'Europa chiedeva all'Italia.
A questo punto, la sorte del Cavaliere sembra segnata, quella del governo Letta è incerta. A novembre, o pochi mesi dopo, la Cassazione potrebbe confermare la condanna per frode fiscale a 4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici e, per la legge sulla incandidabilità del governo Monti, Berlusconi dovrebbe lasciare il Parlamento.
La Consulta dà ragione ai giudici di Milano su tutta la linea: toccava a loro valutare l'effettiva impossibilità del Cavaliere a presentarsi in tribunale, e a Berlusconi di rispettare il principio della leale collaborazione tra poteri dello Stato. I primi non hanno riconosciuto il legittimo impedimento e l'ex premier non ha collaborato come doveva. Perché non ha presentato «alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), né circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario».
È proprio la tesi dei giudici meneghini, per i quali i legali dell'ex premier nel chiedere il legittimo impedimento non hanno indicato la «specifica inderogabile necessità» della sovrapposizione dell'impegno di governo all'udienza. Questione di termini, dunque. La nota dell'Alta Corte ribadisce che «il giudice, nel rispetto del principio della separazione dei poteri, non può invadere la sfera di competenza riservata al governo», ma suo compito è valutare se l'impegno cui si appella l'imputato per disertare l'aula sia o no «assoluto». Insomma, per un premier un Consiglio dei ministri non giustifica, di per sé, l'astensione dalla presenza in tribunale. Bisogna motivare la scelta della data. E con parole precise, non altre.
Una pronuncia che si aggrappa a quella del gennaio 2011, anche allora sfavorevole a Berlusconi, sul principio della discrezionalità della magistratura nella valutazione dell'impedimento. Una parziale bocciatura e interpretazione delle norme, in cui si affermava che l'impedimento è legittimo solo se il giudice può valutare l'indifferibilità della concomitanza dell'impegno con l'udienza.
Ma i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Pietro Longo attaccano la Consulta che pende a sinistra e sostengono che i precedenti «inequivocabili» dovevano portare all'accoglimento del conflitto tra poteri dello Stato. Per loro, è stata una decisione «basata su logiche diverse, che non possono che destare grave preoccupazione».
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