La coperta di Ventotene

Nel Manifesto c'è più di un'intuizione, ma non lo si può considerare "sacro"

La coperta di Ventotene
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Citare il Manifesto di Ventotene nell'aula di Montecitorio è come leggere Lolita a Teheran. Una provocazione. Giorgia Meloni avrà avuto i suoi motivi politici per farlo. Li si potrà considerare buoni o meno buoni. Così come si potrà ritenere che provocare sia stato più o meno opportuno.

Passata la tempesta è giunto il tempo di chiedersi il perché di quella reazione inconsulta. Perché, ad esempio, Fausto Bertinotti, un uomo in fondo mite e non incline alla violenza, avrebbe voluto scagliare contro la premier un corpo contundente. Eppure, che l'Europa si sia coniugata al plurale è fatto assodato. E che quella Ventotene non possa piacere a Giorgia Meloni dovrebbe esserlo a maggior ragione. Al punto che se si fosse riconosciuta in quel testo, la si sarebbe potuta accusare di trasformismo. O peggio: d'appropriazione indebita.

Nel Manifesto c'è più di un'intuizione, ma non lo si può considerare «sacro». Non lo ha fatto neppure chi lo ha scritto. Da esso traspare una conoscenza del mondo incerta e non previdente. Contiene «errori politici di non lieve portata». Esprime un residuo di rozzezza leninista nella concezione del partito. Parole di Altiero Spinelli. Nella sua parte finale - aggiungiamo noi - contiene un attacco al comunismo sovietico d'ascendenza trozkista. Al punto che, allora, i comunisti che vivevano nell'isola, «isolarono» ancor di più quello che con disprezzo ritenevano un convertito alla democrazia. Il Manifesto, d'altro canto, non sfondò neppure tra gli altri confinati. Pertini, che lo aveva sottoscritto, si affrettò a ritirare la firma.

E allora, perché tanto scandalo? Perché affermazioni come: «Credo nell'Europa di De Gasperi, e non in quella di Ventotene»; oppure: «Condivido la visione liberale di Einaudi e non mi ritrovo in quella giacobina di Ernesto Rossi»; o persino: «Nel mio dna ho l'Europa delle nazioni e non posso perciò riconoscermi in una visione federalista», vengono ritenute alla stregua di inaccettabili profanazioni? E il fatto che a considerare tali affermazioni blasfeme siano gli eredi di chi giudicava quei giovani degli inaffidabili incoscienti, rende gli interrogativi di ancor più difficile comprensione.

Il percorso di Spinelli una volta lasciata Ventotene può aiutarci a rispondere. Egli non fu un federalista integralista. Comprese i nuovi equilibri del mondo. Provò a cogliere, pragmaticamente, le occasioni della storia. Per la sua transigenza ebbe non pochi problemi con i suoi compagni di fede europeista. Negli anni Sessanta, quando l'Europa delle nazioni trovò in De Gaulle il suo condottiero, utilizzò la circostanza per provare a convincere i socialisti a staccarsi da una visione «stato centrica». Aprì, allora, qualche breccia. Nel 1979, con lo stesso spirito, accettò la candidatura al Parlamento Europeo come indipendente nelle liste del Pci. Mentre i comunisti ufficiali, nello stesso anno, votavano contro l'ingresso dell'Italia nello Sme, l'antenato della moneta unica.

Per questo, quando poco dopo i comunisti fallirono l'appuntamento con la trasformazione socialdemocratica, Ventotene divenne la loro uscita di sicurezza. Consentì loro di riguadagnare il giusto senso della storia senza passare da Bad Godesberg. Di annoverarsi tra i Padri Fondatori dell'Europa, senza fare i conti con l'opposizione alla Ced, al Mercato Unico, allo Sme. Al prezzo modico di una gita fuori porta. Se, dunque, si voleva provocare, la provocazione è riuscita. Ma ci si può accontentare di mettere le dita negli occhi dei propri avversari o far emergere le loro rimozioni? L'esercizio è utile solo se si è disposti a scavare nelle proprie di rimozioni.

Per ambire a proporre un'altra egemonia culturale. Non ci si fermi, allora, a Ventotene. Ci si confronti anche con l'Europa di De Gasperi e di Einaudi. E non si abbia paura di confrontarsi con quelle idee, non meno pioneristiche, ma più resistenti e più attuali.

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