Intervistato da La Repubblica, Maurizio Landini ha voluto ricordare Massimo D'Antona ucciso un quarto di secolo fa dalle Nuove Brigate Rosse come se l'eredità intellettuale di quel giuslavorista avesse a che fare con l'estremismo della Cgil attuale, che dice di voler difendere il mondo del lavoro e nei fatti avversa ogni modernizzazione. Il segretario del maggiore sindacato italiano ha certo fatto bene a ricordare quanto sia stato criminale quell'omicidio, compiuto da quanti volevano realizzare la rivoluzione comunista, ed egualmente non poteva mancare alla commemorazione tenutasi a Roma. Lasciano però perplessi quelle sue parole che sembrano far confluire quello studioso riformista nell'alveo di un'organizzazione che, in sostanza, è sempre più massimalista. I brigatisti rossi scelsero D'Antona come bersaglio perché era un obiettivo facile e indifeso, senza dubbio, ma anche perché la sinistra marxista è sempre stata ossessionata dai rapporti contrattuali e dall'idea che un libero accordo tra chi compra e vende lavoro sia una forma di dominio. Sul punto Marx è sempre stato chiaro, arrivando perfino a sostenere che il lavoro «libero» entro una società capitalistica sarebbe perfino peggiore della schiavitù.
D'Antona lavorò invece con il ministro Tiziano Treu (di scuola socialista) per riforme che introdussero qualche forma di flessibilità e che secondo i settori più radicali del mondo del lavoro avrebbero quindi causato nuovo precariato. Se è stato ucciso è perché, nella visione ultra-ideologizzata dei brigatisti, egli stava contribuendo a modificare in senso riformatore un mondo del lavoro che in quegli anni lo stesso Massimo D'Alema aveva definito troppo rigido. Anche sul tema delle rappresentanze sindacali quella di D'Antona era una visione alternativa, che si proponeva di innovare e aprire nuove strade. Quando fu ucciso nella sua borsa c'era la bozza dell'ultimo articolo, che si occupava esattamente di superare i vincoli costituzionali per ripensare la rappresentanza sindacale. D'altra parte, egli ha contribuito in maniera determinante a una 'razionalizzazione' dei rapporti di pubblico impiego che alcuni hanno definito addirittura «privatizzazione». Visto in una prospettiva storica, lo stesso «pacchetto Treu» che in quegli anni fu tanto avversato dalla sinistra più barricadera non fu affatto una mera difesa dell'esistente, perché nasceva dalla constatazione che era necessario introdurre spazi di autonomia e rispondere alle dinamiche del lavoro, che non possono ignorare l'andamento del mercato e andando ancor più all'origine le decisioni dei consumatori.
È comprensibile che oggi il leader del sindacato più ideologizzato voglia ricordare senza astio un giurista che ispirò quelle riforme e che, per quel motivo, finì nel mirino della violenza brigatista. Un quarto di secolo separa due mondi ormai assai distanti. Quella voglia di riforme e novità che ispirava D'Antona ha ben poco a che fare, però, con la segreteria attuale della Cgil.
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