I boss devoti alle processioni? Macché fede, è soltanto vanità

Finanziano fuochi d'artificio e feste patronali, sono omaggiati con "inchini" davanti al balcone: i mafiosi usano la religione per avere legittimazione sociale

Un'immagine della processione della Madonna delle Grazie di Oppido
Un'immagine della processione della Madonna delle Grazie di Oppido

Quella della 'ndrangheta è una storia di relazioni che si intrecciano continuamente per mantenere la presa sul territorio. Senza legittimazione e consenso sociale, i clan resterebbero asfittici, morirebbero per mancanza d'aria. «Fintantu chi sugnu papa, papiju», ovvero fino a quando sarò papa, farò il papa, diceva Peppino Piromalli, potente boss di Gioia Tauro, parlando con il suo avvocato. Anche la ricchezza è funzionale al potere. Comandare è una gratificazione assoluta. Nel libro La famiglia Montalbano, scritto nel 1945, ma pubblicato solo nel 1973, l'autore, Saverio Montalto, descrive la 'ndrangheta come una mafia estremamente moderna, in cui convivono il sindaco del paese, il parroco, il medico, gli avvocati e i proprietari terrieri. Tutti sono «amici degli amici», gente che ama farsi vedere, che vuole contare e comandare. D'altronde, come fa notare Corrado Alvaro nel 1955, gli 'ndranghetisti «non erano considerati gente da evitare e non tanto per timore, quanto perché formavano uno degli aspetti della classe dirigente, il potere occulto, creato dalla violenza».

È da questo grumo di potere che bisogna partire per comprendere la 'ndrangheta e la sua fitta rete di relazioni. Nella logica del controllo del territorio, la visibilità conta, ma soprattutto serve. Pertanto, accanto a preti in cotta e stola, sindaci, maggiorenti del paese, i boss, da sempre, amano mostrarsi. Sono «devoti e caritatevoli, filantropi e benefattori» ma, soprattutto, cercano «di dare una rappresentazione verosimile della loro religiosità». È un modo di pensare largamente diffuso. Tra mari, monti e case in bilico sui dorsi dell'Aspromonte e della Sila, pochi paesi riescono a sottrarsi all'influenza e al controllo delle 'ndrine.

«Aundi tagghi, tagghi, scula 'ndrangheta», ovunque tagli, tagli, gocciola 'ndrangheta, recita un vecchio adagio. È una pervasività che, in alcune zone, toglie, addirittura, il respiro. Annota la Direzione nazionale antimafia, nella sua relazione annuale del 2012: «La 'ndrangheta (...) vive in un mondo che non è solo fatto di omicidi e traffici globalizzati, ma di una cultura che ha al suo centro anche Madonne, Santi e riti parareligiosi. E ciò, in Calabria, avviene da generazioni. In ampi strati della coscienza collettiva si è stratificata l'idea che la legittimazione sociale della 'ndrangheta, il suo essere una inevitabile componente della società calabrese, trovi un supporto anche nel sentire religioso».

Non è infrequente vedere statue di santi in processione fatte sostare e perfino inchinare davanti ai balconi dei boss, mafiosi che gestiscono comitati civici per l'organizzazione delle feste patronali, venditori ambulanti sistematicamente taglieggiati durante quei giorni, fuochi d'artificio espressioni della potenza economica e della capacità di spesa dei clan. (...)

Per Alessandra Dino, sociologa dell'Università di Palermo e autrice del libro La mafia devota, si tratta di uno strumento «attraverso cui il rapporto tra benefattore e beneficato si salda in un legame di deferente riconoscenza del secondo in favore del primo, all'insegna di un vincolo di devozione feudale non diverso da quello particolarissimo che lega e rinsalda i legami di clientelismo mafioso».

Solo nell'ottobre del 1992 monsignor Giuseppe Agostino, arcivescovo di Crotone e Santa Severina, torna a parlare di processioni e, in una lettera inviata ai parroci della sua diocesi, scrive: «Non possiamo nasconderci che in alcune parrocchie della nostra diocesi, soprattutto nel passato, ma ancora nel presente, dentro i comitati di festa e tra i portantini – ritenuti àmbiti prestigiosi – vi siano state e vi siano persone che, nell'opinione pubblica, sono indicate come appartenenti a organizzazioni mafiose». Anche questa volta, l'atto d'accusa non incide più di tanto, nonostante l'obbligo di sciogliere comitati e associazioni di portantini per «evitare che decisioni così gravi siano lasciate alla responsabilità o alla timidità di singoli parroci e comunità parrocchiali».

«Non fece vittime» ricorda oggi un prete sensibile ai temi della legalità, riferendosi al decreto di monsignor Agostino.

* procuratore aggunto di Reggio Calabria

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