I continui "stop and go" di Nordio mandano in soffitta la riforma

Il ministro fa tanti annunci ma le sue iniziative sono caute. In mezzo al guado troppi provvedimenti

I continui "stop and go" di Nordio mandano in soffitta la riforma
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Alla fine il ministro Nordio ha deciso di non presentare il provvedimento che prevedeva l’illecito disciplinare per magistrati che intervenissero pubblicamente su argomenti o casi e che poi non si astenessero dal giudicare su quel tema. Il Guardasigilli dopo tanti proclami, se per timore o prudenza non è dato sapere, ha preferito soprassedere. Eppure si tratta di un principio sacrosanto quello che suggerisce alle toghe il silenzio su questioni che in un modo o nell’altro riguardano la loro attività di giudice visto che un magistrato - a sentire una massima che solo a parole ci collega a Beccaria «non solo deve essere ma anche apparire imparziale». È una questione di stile quasi ovvia prima che un dovere, ma Nordio per una sopravvenuta cautela dovuta forse alla moral suasion di Quirinale e dintorni ha preferito mollare. Solo che a questo punto verrebbe da chiedere proprio al ministro della Giustizia il silenzio, perché se agli annunci non seguono i fatti, si ottiene l’obiettivo opposto di quello desiderato. E purtroppo Nordio ha un’inclinazione naturale ad essere tanto prolisso nella teoria quanto inefficace nella prassi. A stare appresso alle tante parole pronunciate in questi due anni si sarebbero dovute approvare tre riforme della giustizia non una, nella realtà però non ne è diventata legge nessuna: i magistrati protestano, si atteggiano a vittime e il processo riformatore fatalmente si ferma.

Si procede con continui stop and go, il che magari non sarebbe neppure una strategia sbagliata se a conti fatti i primi non rendessero inutili i secondi. Basta fare un elenco approssimato per difetto dei tanti provvedimenti rimasti in mezzo al guado. Di questi molti - per avere un’idea della lentezza - erano impegni presi nella scorsa legislatura. Il fascicolo per la valutazione nel magistrato, ad esempio, era una delega della scorsa legislatura che invece di essere attuata è stata smontata. Altra delega sempre di allora riguardava l’obiettivo di ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo nei ministeri, ma non se ne è fatto nulla con il pretesto del Pnrr. Addirittura c’è stata una cascata di deroghe sulla cosiddetta legge che evita le «porte girevoli», cioè il passaggio di una toga in ruoli più meno politici e il ritorno nei ranghi della magistratura, tutto per favorire l’impiego dei magistrati ai vertici dei dipartimenti e dei gabinetti dei ministeri.

Non parliamo poi della reintroduzione della prescrizione che il grillino Bonafede aveva cancellato dopo il primo grado di giudizio: la reintroduzione è stata approvata alla Camera nella primavera scorsa ma al Senato non è stata ancora calendarizzata. Per quanto riguarda la battaglia di tutte le battaglie, cioè la separazione delle carriere tra giudici e pm, non è ancora approdata né nell’aula della Camera, né in quella del Senato, visto che si tratta di una legge costituzionale che deve essere approvata in due letture in entrambi i rami del parlamento c’è il rischio che il probabile referendum si svolga nella prossima legislatura. Anche sulla tematica sollevata dal famoso slogan di Salvini, il «chi sbaglia paga» applicato anche per le toghe sugli errori per la custodia cautelare (lo Stato dal 1992 ad oggi ha dovuto elargire risarcimenti per un miliardo di euro), non si è fatto un tubo.

La verità appunto è che in questi due anni e passa di governo i proclami di Nordio si sono sprecati, ma poi le insurrezioni dei magistrati per un nonnulla, gli appelli contro l’autoritarismo, le accuse contro ogni riforma che aiuterebbe la criminalità organizzata e via dicendo, hanno bloccato o reso impercettibile ogni avanzamento del processo riformatore. Di fatto interferenze sul processo legislativo di cui nessuno parla.

Risultato? Ci aiuta Shakespeare: molto rumore per nulla.

Se si tiene conto che il più efficace innovatore tra i guardasigilli di centrodestra che si sono seduti sulla poltrona di via Arenula è stato il leghista Roberto Castelli, di professione ingegnere, si capisce che con cento magistrati fuori ruolo che occupano i gangli delicati del ministero diventa arduo se non impossibile un processo riformatore.

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