Imboscato di professione

Il supermagistrato supertrombato alle elezioni politiche del febbraio scorso, ha deciso: non si trasferirà ad Aosta e non andrà a lavorare in nessun'altra Procura della Repubblica. Semplicemente cambia mestiere. Si ributta in politica

Imboscato di professione

E così Antonio Ingroia, il supermagistrato supertrombato alle elezioni politiche del febbraio scorso, ha deciso: non si trasferirà ad Aosta per occuparsi di casi marginali (dal punto di vista geografico, quantomeno) e non andrà a lavorare in nessun'altra Procura della Repubblica. Semplicemente cambia mestiere. Farà l'avvocato? Nossignori. Assecondando la propria vocazione tardiva, si ributta in politica, proprio il settore da cui ha recentemente ricevuto una netta quanto imprevista bocciatura. Insiste.
Qualcuno penserà che egli sia un testone, altri un uomo di carattere destinato a sfondare. Chi vivrà vedrà. Una cosa è certa: Ingroia solo sei mesi fa era convinto di essere un astro nascente pronto per brillare nella costellazione degli onorevoli, e si lanciò nel firmamento elettorale senza valutare appieno le difficoltà cui sarebbe andato incontro. L'ottimismo probabilmente era alimentato dalla buona stampa di cui godeva. La sua immagine (reputazione) di Pm inflessibile ed esperto nel ramo mafia, d'altronde, era garanzia di successo, e anche le televisioni non disdegnavano di invitarlo nella speranza di fare audience.

Ma l'impatto di Ingroia con i mezzi di comunicazione di massa non fu entusiasmante. L'aspirante leader faticava a bucare il video, come si dice. Gli mancavano l'eloquio adatto per tenere sveglio il pubblico e la capacità di imporsi sugli interlocutori con argomenti originali, poco aiutato anche dalla voce, efficace succedaneo del Tavor. Se non fosse stato per Maurizio Crozza, il magistrato più noioso e meno votato d'Italia sarebbe passato inosservato: l'imitazione che ne faceva il comico era imperdibile.
Ma queste sono inezie a confronto con le iniziative propagandistiche assunte dall'ormai ex Pm, la più nefasta delle quali è stata la denominazione del partito: Rivoluzione civile. Un simbolo peggiore non esiste nella storia democratica nazionale. Già la parola «rivoluzione» mette in fuga il 90 per cento degli italiani, notoriamente pantofolai, pigri e timorosi di qualsiasi stravolgimento. L'aggettivo «civile», poi, non contribuisce a rendere più raccomandabile il sovvertimento dell'ordine costituito. Sarebbe come addolcire la pena di morte con 20 gocce di Valium. Aiuta a rendere il decesso meno traumatico, ma non lo evita.

Questo però Ingroia adesso pare lo abbia capito. In effetti ha cambiato qualcosa. Nel nome del suo movimento ha sostituito il sostantivo Rivoluzione con Azione, che ha un significato meno spaventevole. Tuttavia è rimasto l'attributo «civile», e non mi pare azzeccato: non per via della semantica, ma per il fatto che Scelta civica di Mario Monti è stata un fiasco istruttivo. Anche solo per scaramanzia, nei panni di Ingroia ci impegneremmo a trovare dizioni più fortunate. Quanto poi alla fusione di Rivoluzione civile con l'Italia dei valori, non si può affermare che sia stata un'idea geniale: i due partiti, una volta sposati, si sono vicendevolmente azzerati. I matrimoni, compresi quelli appunto civili, sono insidiosi.

Mi auguro che il magistrato dimissionario non se la prenda per queste nostre considerazioni. Dobbiamo segnalare, per equità di giudizio, che l'esperienza gli deve aver insegnato molto. Per esempio ha capito che in politica non bisogna chiudere le porte a possibili alleati. A differenza che in un recente passato, ora è pronto a trattare sia con il Pd, orfano di Pier Luigi Bersani, sia con il M5S di Beppe (Grillo) il furioso. Insomma Ingroia, privato della toga e dello stipendio, sta diventando accomodante.

Ancora un piccolo sforzo e sarà in grado di entrare a pieno titolo nella Casta dei politici senza rimpiangere quella dei giudici. Una sola domanda gli rivolgiamo rispettosamente: ma nel frattempo di che campa?

di Vittorio Feltri

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