La lezione di De Gasperi sui pilastri dell'Occidente

L'eredità del leader democristiano a 70 anni esatti dalla sua morte. La ricostruzione economica e sociale dell'Italia dopo il Ventennio fascista

La lezione di De Gasperi sui pilastri dell'Occidente

Oggi si celebrano i settant'anni dalla scomparsa di Alcide De Gasperi. Unanimemente riconosciuto come il più grande statista italiano del dopoguerra, ancora oggi ci offre, attraverso il suo pensiero e la sua opera, un contributo di riflessione di enorme attualità. Come tutte le figure profetiche, il suo messaggio è, infatti, senza tempo. Di De Gasperi si conoscono normalmente gli ultimi anni della vita, quando fu chiamato ad una sorta di mission impossible: ricostruire un Paese distrutto fisicamente e moralmente dalla guerra e lacerato da divisioni profonde. Ma il suo lavoro come capo del governo italiano fu l'esito di una straordinaria esperienza di vita, sin da quando, giovanissimo, divenne parlamentare dell'Impero Austro-Ungarico a Vienna, poi deputato al Parlamento italiano, passando attraverso la prigionia e i lunghi anni trascorsi in un anonimo ruolo presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, perché in Italia vi era nei suoi confronti il divieto di lavoro. Forgiato da tutte queste prove, egli non abbandonò mai due capisaldi fondamentali: una profonda fede e un amore inesauribile per il proprio Paese. Seppe interpretare in modo laico il proprio ruolo politico, al punto di andare in aperto contrasto con Papa Pio XII, verso il quale pure nutriva un rispetto filiale, quando questi gli chiese di allearsi con monarchici e fascisti in occasione delle elezioni per il Comune di Roma del 1952.

Fu sempre determinato e deciso, come nella notte tra il 12 e 13 giugno 1946, quando, di fronte alle reticenze di re Umberto II ad abbandonare il Paese dopo l'esito del referendum monarchia-repubblica, fece approvare al governo un ordine del giorno che attribuiva al presidente del Consiglio, cioè a se stesso, le funzioni di capo dello Stato. Ma non mancarono mai in lui alcune doti che sembrano oggi scomparse dal vocabolario di molti leader politici: pazienza, capacità di ascolto e dialogo, rispetto per l'avversario. Diceva: «La pazienza è il rimprovero che ci rivolgono sovente come se significasse mancanza di volontà, come se non fosse la virtù più necessaria nel metodo democratico». La logica del dialogo e dell'apertura lo spinsero a non accontentarsi di un governo monocolore neppure quando la Democrazia Cristiana stravinse le elezioni: decise, infatti, di allargare la compagine ad altre forze politiche. Nel giro di pochi anni, i suoi governi realizzarono la più impressionante serie di riforme della storia repubblicana: il voto alle donne, la riforma agraria, il piano casa, la Cassa per il Mezzogiorno e l'Eni. I primi anni di funzionamento della Cassa per il Mezzogiorno furono l'unico periodo nella storia italiana del dopoguerra nel quale il divario tra nord e sud si ridusse.

Tutto questo fu preceduto, con lucida visione strategica, da una chiara collocazione dell'Italia, uscita sconfitta dalla guerra, nel contesto delle democrazie occidentali. Il viaggio negli Stati Uniti, da cui prese l'avvio il piano Marshall, e l'adesione dell'Italia alla Nato come Paese fondatore dimostrarono, come ben argomenta Antonio Polito nel suo libro Il costruttore, che la politica estera deve sempre guidare la politica interna. Cosa che purtroppo non accade più da tempo nel mondo, con gli esiti che vediamo. Uomo di confine, insieme ad altri due uomini di confine, Konrad Adenauer e Robert Schuman, intuì l'importanza di quella che definì «la nostra Patria Europa», ben consapevole delle origini e del destino che accomunano i nostri popoli. Non aveva paura di quella che oggi viene definita «cessione di sovranità». Al contrario, sapeva che la condivisione della sovranità con altri avrebbe reso l'Europa, e ciascuno dei suoi Paesi, più forte di fronte alle sfide che si prospettavano. Anche in questo c'è un insegnamento molto attuale. A proposito di Europa, non c'è dubbio che la sua intuizione più grande e profetica sia stata quella relativa alla Comunità Europea di Difesa. De Gasperi sposò il piano presentato dal ministro degli Esteri francese Pleven nel 1950 e il relativo Trattato firmato nel 1952, facendo di tutto per accelerarne la realizzazione. Avendo capito che la Francia non avrebbe ratificato la CED, morì con un profondo dispiacere, confidato agli amici con parole drammatiche, vive nel racconto dalla figlia Maria Romana: «Vidi le lacrime che scendevano senza vergogna sul volto ormai vecchio di mio padre, mentre gridava al telefonò al presidente del Consiglio: meglio morire che non fare la CED. Se l'Unione europea non la si fa oggi, la si dovrà fare inevitabilmente fra qualche lustro, ma cosa passerà tra oggi e quel giorno Dio solo lo sa».

De Gasperi era profondamente consapevole che la difesa comune sarebbe stata la via maestra per l'integrazione europea. A distanza di settant'anni, in particolare dopo l'aggressione russa all'Ucraina e il nuovo sollevarsi di conflitti in ogni parte del mondo, stiamo discutendo esattamente di questo. Perseguitato dai fascisti, sconfisse i comunisti alle elezioni. La sua visione rispetto al tema dell'antifascismo era molto chiara, riassunta in un discorso del 1943: «L'antifascismo a cui dobbiamo ancora tenere non è quello impastato di rappresaglie, di bandi e di esclusioni, ma è il criterio che ci serve a identificare, misurare e giudicare gli stessi antifascisti e non fascisti: la mentalità anti libertaria della dittatura borghese repubblicana, la passione rivoluzionaria militare monarchica o proletario comunista, . la suggestione del nuovo, dell'ardito a qualunque costo. L'antifascismo è una pregiudiziale ricostruttiva». In altri termini e lo aveva sperimentato sulla propria pelle -, essere antifascista significa essere contro ogni forma di totalitarismo.

Per lui la ricerca del bene comune venne sempre prima del consenso e del successo personale. Dopo aver passato anni prima in carcere e successivamente in condizioni molto modeste, seppe vivere in modo sobrio e con grande senso dello Stato anche quando divenne l'uomo più potente e acclamato d'Italia. Ricordo, anni fa, una testimonianza di sua figlia Maria Romana che, di fronte a centinaia di politici radunati in un'aula del Parlamento europeo a Bruxelles, concluse il suo intervento con queste parole: «Ricordatevi che mio padre ebbe il coraggio di morire povero». Resta celebre la risposta di Giulio Andreotti a un giornalista che gli chiese chi fosse l'erede di De Gasperi: «Eredi di De Gasperi sono tutti gli italiani, che gli devono la libertà e la democrazia». Di questa eredità siamo ben consapevoli e la vogliamo ricordare a tutti, a partire dalle giovani generazioni.

Per questo la Fondazione De Gasperi, presieduta da Angelino Alfano, ha progettato un programma per l'anno degasperiano che avrà inizio il 20 agosto con una grande mostra alla 45ma edizione del Meeting per l'Amicizia tra i Popoli di Rimini e che proseguirà con un roadshow di eventi nelle principali città italiane e in alcune capitali straniere (Bruxelles, Parigi, Berlino, Washington), insieme a molte altre iniziative. Il 25 ottobre si terrà presso l'aula della Camera dei Deputati una solenne commemorazione di Alcide De Gasperi, alla presenza del Presidente della Repubblica. Sullo sfondo di tutto questo, vale la pena menzionare la causa di Beatificazione in corso. Iniziata nel 1993 a Trento, quando De Gasperi fu proclamato Servo di Dio, essa è stata ora trasferita alle autorità competenti del Vaticano ed è in fase istruttoria. Moltissimi dei suoi scritti e dei suoi discorsi, così come innumerevoli testimonianze di autorevoli personaggi che lo conobbero, attestano la sua fede limpida e incrollabile, che lo sostenne sempre nella vita privata come in quella pubblica.

Subì il fascino della personalità di Gesù, il cui nome invocò nel momento della morte, il 19 agosto 1954.

*Segretario Generale della Fondazione De Gasperi. Ex presidente dell'Assemblea Parlamentare della Nato. Non-resident Senior Fellow, Atlantic Council.

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