L'ordine è insabbiare

Adesso che la gogna è una minaccia per il ga­rante della Costituzione, il problema sta a cuore perfi­no a chi non l’aveva mai considerato

L'ordine è insabbiare

I corazzieri del Quirinale, quelli con sciabola e quelli con penna,all’unisono difendono il pre­sidente Giorgio Napolitano. Bene, conforta ap­prendere che ci si occupi un po’ delle intercet­tazioni penalmente irrilevanti con cui è stata rovina­tala reputazione di tanta gente nell’indifferenza ge­nerale. Adesso che la gogna è una minaccia per il ga­rante della Costituzione, il problema sta a cuore perfi­no a chi non l’aveva mai considerato. Qui, in effetti, non si tratta di impedire alla magistratura di ascolta­re le conversaz­ioni telefoniche di uomini e donne so­spettati di aver commesso reati gravi. Ci manchereb­be. Si vorrebbe soltanto che le chiacchiere non utili per le indagini fossero cassate o distrutte in modo che l’informazione non se ne serva allo scopo di insa­por­ire articoli di giornale e servizi televisivi e radiofo­nici.

Meglio tardi che mai, dirà il lettore. Giusto. Ma i co­razzieri, nel tentativo di proteggere il Colle da pette­golezzi e insinuazioni, rinunciano alla logica e fanno ragionamenti capziosi per condannare giornalacci come il nostro. Noi affermiamo: si approvi una legge che disciplini la delicata materia per tutti, non solo per il capo dello Stato, e si chiuda ogni polemica. In futuro non ci saranno più incidenti. Nel frattempo, abbiamo regalato a Napolitano un consiglio ispirato a senso comune: se nelle chiacchierate fra lui e Nico­la Mancino non c’è nulla di male, perché impazzire affinché non siano divulgate?

Chi non ha da temere, non ha neppure difficoltà a scoprire le carte. Un discorso semplice, banale, ma ri­solutivo. Nonostante ciò, i suddetti corazzieri (della Repubblica , del Corriere della Sera , eccetera), liqui­dandoci quali poveri tapini, sostengono che Napoli­tano non è in grado di fornire alcuna liberatoria, per­ché le intercettazioni sono segrete, non in suo posses­so bensì depositate presso la Procura di Palermo. Ov­vio. Non ci siamo mai sognati di dire che il Quirinale debba consegnarci documenti di cui non dispone. Se però il presidente, invece di irrigidirsi in un atteg­giamento ostile verso chi cerca di chiarire la questione, dicesse: «Per quel che mi riguarda, nulla osta alla pubblicazione delle mie conversazioni con Mancino», lo scandalo- ammesso che tale sia- si sgonfiereb­be in un minuto.

Nessuno inoltre è tanto stupido da pretende­re che sia lui a dare alla Procura un ordine - to­gliete il segreto su quella roba- che non può da­re. Ci si aspettava tuttavia da Napolitano un ge­sto politico dal seguente significato: poiché non ho commesso scorrettezze, i magistrati agiscano come meglio credono con le intercet­tazioni che mi riguardano, le inseriscano negli atti, le rendano note, le mandino al macero, non m’importa niente perché niente di sconve­niente ho fatto. Una frase così, pronunciata con la calma dei giusti, avrebbe zittito le lingue più malevole, comprese quelle dell’orrenda stampa filoberlusconiana, sempre pronta a sputare sulle istituzioni per compiacere il pa­drone.

Invece, il presidente, complicando le cose a proprio danno, si è addirittura rivolto alla Cor­te costituzionale affinché si pronunci sul con­flitto di attribuzioni. Cioè dica: eliminate quel­le telefonate. Mossa sbagliata, sbagliatissima. La Corte, infatti, viaggia alla velocità delle lu­mache. Prima che emetta la sentenza, passe­ranno mesi e mesi. Lo ha annunciato essa stes­sa, suscitando in noi una curiosità della quale desideriamo rendervi partecipi. Siamo consa­pevoli: è una pratica delicata, ci sono di mezzo il capo dello Stato e la Procura di una grande cit­tà quale Palermo, occorre valutare, soppesa­re, riflettere, meditare. Ma, in fondo, si tratta so­lo di stabilire se quelle intercettazioni, che stanno destabilizzando il Palazzo e il Paese, si­ano da gettare oppure da conservare.

Il quesito in sé, in una situazione normale e con personaggi normali coinvolti, non sareb­be drammatico, anzi verrebbe rubricato fra quelli a cui si risponde in sette o otto minuti. Data l’eccezionalità delle circostanze e dei pro­tagonisti chiamati in causa, si capisce però che i giudici della Consulta chiedano più tempo. Quanto? Anziché sette o otto minuti, facciamo sette o otto ore? Poco. Facciamo sette o otto giorni? Poco. Facciamo sette o otto settimane? Nossignori. Sette o otto mesi. Forse nove.

Scusate, cari lettori, ma vi sembra regolare che per stabilire il da farsi alla luce della Costi­tuzione ci voglia il tempo di una gravidanza? Qualcuno obietterà: la Corte è oberata di lavo­ro, sui tavoli si saranno ammonticchiate centi­naia di faldoni, esisterà un calendario da rispet­tare. D’accordo,ma qui siamo di fronte a un di­lemma che tiene sulle spine il presidente della Repubblica, milioni di italiani, giuristi, partiti politici, magistratura. Non si potrebbe prende­re il­plico scottante e avviarlo su una corsia pre­ferenziale affinché si superi in fretta l’impas­se?
No. È obbligatorio attendere.

Frattanto succederà un finimondo. Scatterà il semestre bianco, poi ci sarà la campagna elet­torale, poi le elezioni, il nuovo Parlamento vo­terà il successore di Napolitano.


E quando que­sti sarà senatore a vita, e al Quirinale si sarà in­sediato un altro inquilino, finalmente sapre­mo quello che già sappiamo: quelle intercetta­zioni vanno distrutte. A quel punto tutti noi fa­remo spallucce. Roba scaduta, una bega da cortile. Viva la trasparenza.

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