Non serve governare: alla fine è la Consulta che decide su tutto

Roma Governi e Parlamento tessono la tela di giorno, la Corte costituzionale la disfa di notte. Come voleva Penelope il lavoro non ha mai fine, perché ricomincia sempre daccapo. Solo che, in questo caso, si tratta del lavoro delle riforme che dovrebbe cambiare l'Italia.
Solo mercoledì, sono arrivate tre sentenze con importanti ripercussioni sulla vita del Paese, spaziando dalla giustizia all'economia: bocciato il taglio delle Province, salva la rappresentanza sindacale della Fiom Cgil nelle fabbriche Fiat, sì alla nuova geografia giudiziaria che abolisce le piccole sedi.
Interviene su tutto, la Consulta. Preme per la riforma elettorale e boccia il legittimo impedimento di Berlusconi, dice no al prelievo sulle pensioni d'oro e restituisce ai magistrati i tagli agli stipendi, giudica il decreto Ilva e detta la linea sulla mediazione, decide di immigrazione, nucleare e anche crocefisso nei luoghi pubblici.
Si dirà che i «giudici delle leggi» devono solo accertare che le norme non violino la Costituzione. Un impegno che appare quasi meccanico, incontrovertibile. Ma non è così. L'astuzia della sposa di Ulisse trova larghi spazi nella discrezionalità in cui si muove ogni sentenza. In altri Paesi ci vogliono i generali per ribaltare leggi e governi, da noi per bloccare o riscrivere norme scomode si ricorre alla Corte più alta. Che, in base alla composizione e all'equilibrio politico (da anni pende nettamente a sinistra) e in base alle opportunità del momento, può dire una cosa e il suo esatto contrario. I verdetti senza appello dei quindici che siedono al Palazzo della Consulta possono tranquillamente contraddire la stessa giurisprudenza della Consulta.
Lo si è visto proprio due giorni fa, quando la Corte costituzionale ha detto in una sentenza che non si può usare lo strumento del decreto legge per abolire le Province e in un'altra che, per tagliare i tribunali minori, va bene una legge delega inserita nell'iter di conversione di un decreto legge. Forse, nel primo caso pesava la dominante spinta anti Casta e nel secondo il monito lanciato poco prima dal capo dello Stato che definiva «vergognoso ipotizzare un rinvio della riforma»?
Fatto sta, che sono stati ignorati almeno un paio di precedenti molto calzanti (quello sul peculato di un sindaco siciliano e quello sul teatro Petruzzelli di Bari), in cui si bacchettava il legislatore proprio per l'uso disinvolto dei decreti legge, con inserimenti fuori tema.
Nella stessa giornata, ecco il verdetto che dà ragione alla Fiom e scacco alla Fiat. In netto contrasto con quello numero 244 del 1996: situazione normativa identica, ma si dava torto ai sindacati autonomi proprio sullo stesso punto (articolo 19 dello Statuto dei lavoratori) cui ora si dà ragione alla Fiom.
Pochi giorni fa sono state depositate le motivazioni della sentenza sul legittimo impedimento del Cavaliere per l'udienza al processo Mediaset. L'ostacolo non era «assoluto», per la Consulta: il Consiglio dei ministri poteva essere rinviato o il premier poteva essere sostituito da un vice.
C'è chi fa due più due e ricorda le passate bocciature dei lodi Schifani e Alfano: questo è proprio il caso in cui uno scudo temporaneo per le maggiori cariche istituzionali avrebbe evitato di fare entrare in rotta di collisione i due ruoli di un capo del governo che è anche imputato.

Ma nel Palazzo della Consulta si va avanti così, a seconda del vento. Poco conta se questo comporta la paralisi per il Paese sulle riforme. Poco conta se l'attività di Parlamento e governi finisce come la tela di Penelope.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica