MilanoEra il politico tutto d'un pezzo, l'hombre vertical, quello che «dopo 28 mesi di indagini voglio il processo», che «scelgo il rito immediato per accelerare i tempi della giustizia», quello - soprattutto - che «la prescrizione mai!». Ecco, era. Perché un conto sono le parole, altro i fatti. E i fatti dicono che Filippo Penati - il principale imputato nel processo sul cosiddetto «sistema Sesto» -, se la cava con quella che a seconda delle prospettive appare come una furbata, una pessima figura o una generale presa per i fondelli. Penati ha avuto la sua grande occasione, ieri, nell'aula del tribunale di Monza. Poteva alzarsi e dire al giudice che no, la prescrizione non la voglio. Poteva prendere la parola e spiegare, come dettato mille volte alle agenzie di stampa, che intendeva difendersi nel processo. E invece non solo non si è alzato e non ha proferito verbo, ma in tribunale nemmeno ci è venuto, e quando è stato cercato al telefono si è reso irreperibile, cavandosela come un qualunque ladro di polli. Così si è salvato dall'accusa di concussione, quella più grave. Una prescrizione alla chetichella, con una toppa peggio del buco. Perché a sentenza ormai pronunciata, Penati ha ritrovato il filo della propria coerenza. «Ricorrerò in Cassazione per annullare la prescrizione», è il suo comunicato. Tardi. Tardi davvero.
Doveva essere un'udienza lampo, quella di ieri. Una formalità per dichiarare la prescrizione del reato di concussione - ampiamente annunciata - e unificare il procedimento a carico di Penati e dell'ex segretario generale della Provincia di Milano Antonino Princiotta con quello di altri sette imputati che avevano scelto il rito ordinario. E invece, il coup de theatre. Colpa - o merito - del giudice Letizia Brambilla, che non si è limitata come prassi a leggere la sentenza di prescrizione, ma ha chiesto al legale dell'ex dirigente Democratico se l'imputato intendesse avvalersi del beneficio di legge. Colossale imbarazzo. «Non so», ha risposto spiazzato l'avvocato Matteo Calori. «Dobbiamo interpretarlo come una non rinuncia alla prescrizione?», ha insistito il giudice. E l'imbarazzo è diventato gelo quando Brambilla si è detta disposta a sospendere l'udienza in attesa di conoscere la volontà dell'imputato. Calori si è trovato nell'angolo. Ha spiegato di non avere una procura speciale per dare una risposta, ma il giudice ha insistito. «Non riesce a sentirlo telefonicamente?». Così il legale è uscito dall'aula, cellulare alla mano. Si è defilato, riparandosi in un corridoio lontano dai cronisti. Poi è tornato davanti al giudice. «Presidente, Filippo Penati come vede non c'è, e quindi penso non abbia intenzione di venire». Punto. E così è arrivata la sentenza di prescrizione. Calori, braccato dai giornalisti, se n'è andato veloce, limitandosi a un tremebondo «no comment».
Ora, attenzione ai tempi. Poco prima delle 10 è andato in scena il balletto del Penati-fantasma, un misto di psicodramma e cabaret. Alle 10 e un quarto l'udienza è stata dichiarata conclusa. Solo alle 11 e un quarto, invece, la prima agenzia ha lanciato la nota dell'ex presidente della Provincia. «Già nei prossimi giorni farò ricorso in Cassazione per annullare la sentenza di prescrizione voluta dai pm per i fatti di 13 anni fa». Un'ora dopo averla sfangata, Penati ha provato a spacciare un autogol come una spettacolare rete in rovesciata.
Di fatto, il giovane dirigente del Pci su cui il partito puntò forte fino a portarlo nella stanza dei bottoni (salvo scaricarlo nel pieno delle inchieste), sarà costretto ad affrontare ugualmente l'aula del tribunale. Per l'ex braccio destro di Pier Luigi Bersani restano in piedi altre accuse, dalla corruzione per l'affaire Milano-Serravalle al finanziamento illecito. Ma intanto la concussione è passata in cavalleria.
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