Perché la libertà di stampa non è in pericolo in Italia

Non esiste oggi alcun allarme per la libertà di stampa. Con Meloni e il governo di destra non c'è odore di regime. Piuttosto domina a sinistra quella che, citando il titolo di un volume forestiero, Padellaro chiama "La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto"

Perché la libertà di stampa non è in pericolo in Italia

Novembre 1980. Terremoto in Irpinia. Tre giornalisti affittano un'auto a Napoli, puntano verso l'epicentro del disastro. Arrivano in uno dei paesino-presepe, Sinerchia. Nessun soccorso, silenzio tombale, rotto dai vivi che gridano da sotto le macerie e dalle donne che urlano accarezzando i morti. Ed ecco: frastuono di pale e di vento, atterra al campo sportivo l'elicottero. Scendono dignitari impomatati, alamari, doppiopetti, infine il presidente Sandro Pertini. La gente radunata voleva soccorsi, infermieri, e invece arriva il Presidente Partigiano che porta conforto a chiacchiere. Insulti, proteste, fischi. Parte un sasso che sfiora la testa di un dignitario. Pertini capisce la malaparata, dietrofront, risale sul velivolo, e l'elicottero punta sulle retrovie. Tra quei tra giornalisti c'è Antonio Padellaro del Corriere della Sera. Scrive quello che ha visto. Il titolo del Corriere riferisce: «Fischiato Pertini». La sera stessa il capo dello Stato appare in solenne diretta tivù: «Hanno scritto, nevvero, che le bravi genti irpine mi avrebbero fischiato. È falso perché invece mi hanno accolto con tanti applausi». Il Corriere si adegua.

Traggo questo racconto dal libro di Antonio Padellaro, Solo la verità, lo giuro (Piemme, pagine 170, euro 18,90). Lo consiglio per due ragioni. È scritto divinamente, fornisce perciò un piacere raro di questi tempi dove articoli e saggi rifuggono dalla misteriosa chimica che trasforma un pezzo di carta e inchiostro in un giardino. Lui ci riesce. E poi è sincero. Consente così al lettore di osservare, insieme alle peripezie di Antonio, quelle della libertà di stampa in Italia dal 1968 a oggi, che è l'arco della carriera da gazzettiere dell'autore: da cronista a inviato, da direttore a fondatore di quotidiani. Un po' la mia inutile scalata, ma su versanti opposti della montagna. Scrive di sé: «Ero diventato di sinistra per moda, quasi per allegria. Per sentirmi figo e dalla parte giusta della storia». Ho in comune con Padellaro il «tavolone di Albertini»nella sala riunioni del Corriere della Sera, vissuti da me sul fronte minoritario anticomunista e lui dalla parte opposta, ma nella stima reciproca.

Tiro io la somma di questo cammino della libertà di stampa, visto che lui non lo fa. Non esiste oggi alcun allarme per la libertà di stampa. Con Meloni e il governo di destra non c'è odore di regime. Piuttosto domina a sinistra quella che, citando il titolo di un volume forestiero, Padellaro chiama «La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto». Antonio resta un avversario, anzi un nemico di chi oggi guida la baracca italica - lui non teme di usare le parole tagliate nella pietra ma accidenti, non riesce proprio a mentire. Confermo. Benché rapporti solenni usciti da Bruxelles cerchino di marchiare lo stato delle nostre cose come retaggio fascista, a essere censurati e confinati nel lazzaretto della plebaglia sono coloro che non si adeguano al vocabolario fissato dal progressismo linguistico.

Un caso come quello di Pertini che nega l'evidenza dei fischi e tutti gli danno ragione, sarebbe oggi impossibile. Così a proposito del Caso Moro, Padellaro riconosce che salvo Leonardo Sciascia e Giuliano Zincone, tutti si adeguarono al diktat concorde di comunisti (in primis Berlinguer) e democristiani i quali decisero che Moro non poteva essere salvato. E su Giovanni Leone, linciato dall'Espresso e da Repubblica, e abbandonato anche dai suoi democristiani, idem. I giornalisti? Si adeguarono al motto segreto della categoria: i giornalisti italiani sono i più liberi del mondo di attaccare l'asino dove vuole l'editore che li paga. Non è cambiato niente. C'è la stessa o forse persino maggiore - quantità di libertà rispetto al tempo in cui il giovanotto di sinistra Padellaro, grazie alla «spintarella» del padre, notabile democristiano con passato fascista ben portato, fu assunto all'Ansa. Non c'è differenza tra destra, sinistra e centro. Se sei bravo trovi modo di far valere la capacità di raccontare quello che vedi e quello che senti, e ti guadagni una considerazione del pubblico, che nessun padrone può trascurare, salvo non sia masochista. Purché non esageri a rompergli le uova nel cestino detto anche scroto. Allora, come è capitato parecchie volte a Padellaro, ti tocca cambiare aria, finché trovi un altro porto dove ormeggiare. È l'onesto e dolente filo della testimonianza padellariana, che fu messo in condizione prima di andarsene dal Corriere, poi dall'Espresso, dov'era vicedirettore, infine dall'Unità: qui ad agire con la delicata scimitarra di un sicario, per lasciare il posto a Concita De Gregorio, fu Walter Veltroni. È così che Antonio si trasformò in fondatore

- Dio lo perdoni- del Fatto quotidiano, e non manca il racconto di come Beppe Grillo cercò in ogni modo di boicottarlo volendo al suo posto Marco Travaglio, che infine lo ha felicemente sostituito lasciandogli il libero scranno di editorialista.

Che sia di un'altra pasta, rispetto al sodale Marco, lo evidenzia il complicato rapporto di Antonio con Berlusconi, che dura tuttora. Non riesce a non stimarlo. Racconta di quando, dopo un titolo violentissimo contro il Cavaliere, arrivò in redazione una telefonata furente di Berlusconi. Era pronto a tutto, ma non all'obiezione amareggiata del Cavaliere: «Non è vero che ho il parrucchino, la prego di venire da me a tirarmi i capelli». Il finale fu una risata. Infine. Scrive: «L'ultima volta che ho sentito Berlusconi è stato qualche giorno prima della sua scomparsa. Gli avevo inviato gli auguri di pronta guarigione attraverso Vittorio Feltri. Lui chiamò per ringraziarmi e, con una vocina sottile, si congedò con una strana domanda: Mi dica, dottor Padellaro, noi abbiamo mai avuto modo di lavorare insieme?. Gli risposi, naturalmente, che no, non avevo mai lavorato per lui. Ah, che peccato: e fu il suo ultimo tentativo di sedurmi». Ammette Antonio: «Nostalgia canaglia». È anche la mia.

P.S. Mi permetto, da vecchio arnese di redazione di correggerlo in tre punti. 1) Piero Fassino non ha studiato dai salesiani (pag. 24) come Travaglio, ma dai gesuiti proprio come Padellaro. 2) La seduta spiritica del 1978 dove La Pira spifferò l'indirizzo della prigione di Moro («Gradoli») non si svolse nell'appartamento di Romano Prodi nel «centro storico» di Bologna (pag. 55), ma a 30 km di distanza, in una villa a Zappolino, frazione del comune di Valsamoggia.

3) «Le monetine che tirano addosso a Craxi il 17 dicembre del 1992 a Roma, davanti all'hotel Raphael» (pag. 85) in realtà si radunarono lì il 30 aprile 1993. Il giornalismo scrive Padellaro «è un luna park fallito per sempre», ma ci tengo ancora a lucidare le maniglie della giostra.

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