Il Pd crolla a picco. Autodistrutto. Più passano le ore più cadono pezzi. E sono pezzi eccellenti. Dopo la bruciatura di Franco Marini e dopo il clamoroso flop di Romano Prodi (che ha annunciato il ritiro della sua candidatura a presidente della Repubblica), oltre ai padri nobili del Pd, anche Rosy Bindi ha deciso di farsi da parte.
"Il 10 aprile ho consegnato a Pierluigi Bersani una lettera di dimissioni da presidente dell’Assemblea nazionale del Pd. Avevo lasciato a lui la valutazione sui tempi e i modi in cui rendere pubblica una decisione maturata da tempo. Ma non intendo attendere oltre. Non sono stata direttamente coinvolta nelle scelte degli ultimi mesi né consultata sulla gestione della fase post elettorale e non intendo perciò portare la responsabilità della cattiva prova offerta dal Pd in questi giorni, in un momento decisivo per la vita delle Istituzioni e del Paese", ha fatto sapere in un comunicato l'ex ministro della Salute.
Non vuole che le vengano addossate colpe che non ha, Rosy Bindi. Eppure, lei è stata una delle prime ad avanzare il nome del Professore. E poche ore prima dello scrutinio di oggi ha ribadito che "penso che Prodi Presidente della Repubblica sarà una vittoria per l’Italia. Sarà la persona giusta per costruire quel dialogo anche col centrodestra. Nessuno dubiterà mai che Prodi dialoghi con Berlusconi se non per l’interesse generale e per il bene del paese".
Insomma, seppur in parte, anche la Bindi non è esente da responsabilità. Dal canto suo, il Professore ha fatto sapere che "oggi mi è stato offerto un compito che molto mi onorava anche se non faceva parte dei programmi della mia vita. Ringrazio coloro che mi hanno ritenuto degno di questo incarico. Il risultato del voto e la dinamica che è alle sue spalle mi inducono a ritenere che non ci siano più le condizioni". E poi ha tuonato contro i franchi tiratori e contro chi li ha diretti: "Chi mi ha portato a questa decisione deve farsi carico delle sue responsabilità".
Anche il segretario democratico ha annunciato la fine della sua carriera democratica. "Abbiamo prodotto una vicenda di una gravità assoluta. Sono saltati meccanismi di responsabilità e di solidarietà, oggi è stata una giornata drammaticamente peggiore di ieri. Per me è troppo. Consegno all’assemblea le mie dimissioni. Operative da un minuto dopo l’elezioni del Presidente della Repubblica. Continuerò a dare una mano. I capigruppo con me devono da subito contattare le altre forze politiche per trovare una soluzione definitiva sul Quirinale. Noi da soli il Presidente della Repubblica non lo facciamo", ha annunciato Bersani all'assemblea.
Intanto nel Pd regna la tensione. "Questo è un partito del c...", ha sbottato una neodeputata, aggiungendo che "in due giorni ne abbiamo bruciati due". "Non so più che aggettivi usare" si è sfogato un altro deputato al telefono con la moglie. "Ora che facciamo, ci riuniamo di nuovo?". "Sì, ma non al cinema Capranica che ci porta sfortuna", ha risposto una scaramantica collega.
Secondo le prime disamine del voto, i franchi tiratori si anniderebbero tra le fila di dalemiani ed ex popolari. Ma non solo. Perché i 101 voti che mancano sono tanti. Alcuni sospettano che i renziani abbiano fatto un brutto scherzo a Prodi. "Hai visto la velocità con cui Matteo ha detto che la candidatura Prodi non c’è più?", ha dichiarato un ex popolare. Tesi smentita categoricamente dallo stesso sindaco di Firenze: "Io le cose le dico in faccia, sempre. I doppiogiochisti non mi piacciono. Prodi sarebbe stato un ottimo presidente, ma lo hanno fatto fuori alcuni parlamentari Pd che al mattino avevano applaudito la sua designazione a scena aperta".
Insomma, adesso il Pd - o quel che rimane del Pd - si trova davanti al bivio: scegliere se convergere sul nome di Stefano Rodotà, con la consapevolezza che è un nome che più che unire divide; oppure se puntare su un nome condiviso col Pdl o con Scelta Civica. Al netto della linea politica però, è indubbio che il Pd è arrivato al capolinea. Almeno quello guidato da Bersani.
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