Il 5 febbraio scorso il nome di Massimo D'Alema fa ufficialmente irruzione nell'inchiesta sul «sistema Penati». Fu lui, «Baffino», a dare l'ordine a Filippo Penati di comprare a un prezzo stratosferico le azioni dell'autostrada Serravalle in mano a Marcellino Gavio: cinquanta milioni più del prezzo reale, che Gavio userà poi per aiutare Unipol a scalare la Bnl. A raccontarlo ai pm è Renato Sarno, l'architetto che faceva da collettore delle tangenti destinate a Penati, ex sindaco comunista di Sesto San Giovanni divenuto presidente della provincia di Milano. Il verbale di Sarno finisce ieri sulla prima pagina del Corriere, sollevando le ire di D'Alema: anche perché Penati nel frattempo smentisce tutto.
Ma c'è un dettaglio, nella registrazione di quell'interrogatorio, su cui vale la pena soffermarsi. Per due volte, i pm di Monza Walter Mapelli e Franca Macchia chiedono a Sarno: è sicuro che Gavio abbia fatto il nome di D'Alema, e non quello di Pier Luigi Bersani? Sarno insiste. I pm incassano il verbale, non troppo convinti. Per loro, come per tutti, il referente di Penati a Roma, l'uomo che lo chiamò a capo della sua segreteria, era Bersani. È ben vero che il nome di D'Alema era già comparso nell'inchiesta, ma con un racconto di terza mano, e riferito con palese scetticismo: Antonino Princiotta, uno degli arrestati, ex segretario della Provincia, raccontava di avere saputo da Piero Di Caterina, il pentito-chiave dell'indagine, che «Gavio era andato a trovare Penati con una borsa e nella stessa ci stavano sette milioni (....) dall'ufficio di Penati sarebbe uscito D'Alema o un suo emissario con una analoga valigetta modello sette milioni».
«Farneticazione», la definisce Princiotta. E forse a ragione. Ma, valigie di quattrini a parte, nell'inchiesta sulla vicenda Serravalle e sugli affari dei Ds milanesi l'ombra del partito nazionale incombe in modo assai chiaro. Che l'inspiegabile acquisto delle azioni di Gavio da parte della provincia di Milano fosse stato deciso da Roma lo dice anche una testimonianza piuttosto nitida: quella di Giorgio Goggi, ex assessore al traffico del Comune di Milano, anch'esso all'epoca in trattativa con Gavio: «Incontrai Gavio e gli chiesi se era disponibile ancora a acquistare le nostre azioni, lui mi disse che l'offerta non era più valida perché lui si era già impegnato con Fassino e D'Alema, senza ulteriori spiegazioni. Io compresi che la vendita delle azioni Serrvalle a Penati rientrava in una dimensione più grande, a livello nazionale». L'affare Unipol, cioè: quello di cui Fassino festeggerà la conclusione con la famosa telefonata, «Abbiamo una banca!».
D'Alema, Bersani, Fassino. Di fatto, i tre uomini che si sono succeduti alla guida dei Ds e poi del Pd (con l'eccezione di Dario Franceschini) compaiono tutti nelle carte dell'indagine della procura di Monza, anche se nessuno dei tre è mai stato iscritto nel registro degli indagati. La «pista romana» e il legame tra vicenda Serravalle e affare Unipol-Bnl non sono stati battuti, anche perché la morte di Marcellino Gavio ha reso difficile trovare riscontri agli elementi spuntati qua e là sui tre lìder maximi.
Dei tre, l'unico a esporsi pubblicamente, anche dopo l'incriminazione di Penati, in difesa della validità dell'operazione Serravalle è stato Bersani, che ne ha difeso l'utilità pubblica.
Anche se poi l'indagine della Guardia di finanza ha permesso di accertare che la perizia che fornì a Penati la giustificazione per strapagare le azioni di Gavio in realtà non esisteva: venne realizzata dopo l'affare, e allegata agli atti retrodatandola. Per quella data fasulla apposta sul documento, il pm milanese Giovanni Polizzi ha aperto una inchiesta. Peccato che sia già prescritta.LF-ELag- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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