diIl cappellone da cowboy, la macchina fotografica al collo, il vocione con cui regalavi una buona parola a tutti quelli che ti capitavano a tiro
Troppo facile ricordarti così, caro Rolly, io voglio partire dalla fine, dall'uomo invecchiato tutto di un colpo, otto anni fa, dopo l'incidente che ti portò via la vista. Eri fermo al casello di Bolzano, al telefono, un tir ti prese in pieno, già buono poterlo ancora raccontare, ma tutto quel che amavi fare prima di quel brutto giorno all'improvviso fu solo un ricordo. Leggere diventò un problema, scrivere no, perché al tuo fianco c'era sempre chi ti dava una mano. E a chi ti diceva «che sfiga» rispondevi con un sorriso «ma va là, la vita mi ha dato già tanto, sono stato fortunato, guai a lamentarsi». Negli ultimi tempi riconoscevi gli amici dalla voce, camminavi sorretto da un bastone, il cappello e la macchina fotografica erano sempre con te, solo il vocione era un po' meno brillante, ma sembrava impossibile che qualcosa potesse abbattere il tuo spirito, così vivo, vivace, sempre pronto a fare, a inventare, a proporre
Ti ho conosciuto in mille vesti, il primo ricordo è del 1971, al trofeo Corrierino dei Piccoli di Madonna di Campiglio, sede della storica 3Tre, una delle mille gare da te inventate. Avevo 10 anni ed ero arrivata seconda alla finale nazionale nella categoria cuccioli. Al primo posto, sul gradino più alto del podio, una bimba di nome Beatrice che era grande il doppio di me. Le arrivavo alle ginocchia e la frase «alla faccia della cucciolona» che mi dissi premiandomi e facendomi l'occhiolino non l'ho mai scordato, così come non ho scordato le sfilate per le vie di Trento in occasione del Trofeo Topolino (la tua «creatura» forse più prestigiosa) con te che animavi la manifestazione sotto l'immancabile cappello da cowboy. Per tutti i bambini che sciavano e amavano l'agonismo Rolly Marchi era un mito, una leggenda vivente, era onnipresente alle gare e non passava mai inosservato, con quel fisico alto e aitante che derivava da un passato da atleta, sci ma non solo. Amavi la montagna che ti aveva generato, ma eri uomo di mondo, stavi bene nei rifugi a cantare e bere assieme alle guide alpine e ai maestri di sci, ma altrettanto bene ti muovevi in ambienti culturali e artistici di alto livello o in mezzo a imprenditori e uomini politici nella tua amata Cortina. A spingerti sempre e comunque erano la grande passione per la vita, la voglia di non fermarsi mai, di fare, fare, fare. La tua fama, e questo ti rendeva particolarmente orgoglioso, valicava i confini del nostro piccolo mondo della montagna che ti aveva dato tanto. Eri sicuro di te, ma a differenza di tante persone esperte e mature che tendono a pontificare, innalzandosi su un piedistallo per dare lezioni, tu sapevi incoraggiare i giovani e i colleghi, anche i giovani colleghi, come sono stata io all'inizio della mia seconda carriera, giornalista dopo atleta. Mi leggevi e mi davi consigli: il massimo fu quando, da vicedirettore della rivista Sci di cui eri collaboratore storico, mi toccò «darti ordini», chiederti pezzi, idee. Eri un po' anarchico in questo, un cane sciolto poco incline all'ubbidienza, se 60 righe dovevano essere tu ne mandavi 80 e ti arrabbiavi se ti dicevo che andavano tagliate. Anche per non dover dipendere dagli altri, forse, hai deciso di fare da solo, creando La buona neve, una rivista per gli amici fatta grazie agli amici, una raccolta bellissima dei tuoi pensieri, dei tuoi ricordi e delle tue idee con le mille foto del tuo archivio personale che finalmente potevi esporre al mondo. E la buona neve, la tua ultima, l'hai toccata ancora poche ore prima di lasciarci per sempre, quando quell'angelo di Beba Schranz, tuo braccio destro professionale negli ultimi anni, te ne ha portata un po' in ospedale da Macugnaga, che nei giorni scorsi era stata ricoperta dalla prima polvere bianca della nuova stagione. Beba te l'ha messa in mano tirandola fuori dalla borsa frigo e tu hai sorriso nel toccare quel freddo amico, prima di richiudere gli occhi.
Non so quante Olimpiadi hai seguito, la leggenda narra che già nel 1936, appena quindicenne, avessi raccontato qualcosa dei Giochi invernali, so solo che la mia prima senza Rolly fu a Vancouver, nel 2010 e che la prossima, Sochi 2014, saremo in molti a viverla nel tuo ricordo. Ci vorrebbe solo qualcuno in grado di inventarsi qualcosa per celebrarti in modo degno, ma di Rolly Marchi, purtroppo, non ne nascono più.
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