Saranno i profumi della cucina a salvare questo Paese nevrotico

Il potere eversivo del ragù. L'antidoto a un'Italia ormai "surgelata"? Le vecchie ricette delle mamme casalinghe

Saranno i profumi della cucina a salvare questo Paese nevrotico

La rivoluzione italiana passerà per il macinato di manzo e maiale, il concentrato di pomodoro, prezzemolo, sedano e carota. Nazionalismo al ragù. Non c'è che dire, ha ragione Antonio Scurati: la gastronomia ha sostituito la filosofia come scienza delle cose del mondo. Me ne sono accorto pochi giorni fa uscendo su un pianerottolo e accorgendomi che c'era qualcosa di strano, in questo lindo pianerottolo di marmi bianchi, divani di moquette e specchi in un condominio borghese, molto borghese della Camilluccia: c'era un odore forte, pregnante, anzi un profumo elegante e triste di ragù.

Un semplice, sontuoso, odore di sugo di carne. Probabilmente veniva da uno degli appartamenti al primo piano. Ed erano le sette del mattino di un martedì qualsiasi, quando esci di casa rincorrendo figli, lavoro, ritardi e caffè della moka. Dopo tanto tempo che abito qui, è la prima volta che accade di percepire il fumo impalbabile che esce da una pentola, l'atmosfera casalinga e di raccoglimento che si porta appresso su e giù per le scale e fino al portone di ingresso. Ciò che prima era consuetudine ora è rivoluzione, è carne e sangue dell'identità. È ragù nazionale.

La malelingua che abita in noi mi ha fatto supporre che fosse stata una tata, magari istruita da una nonna, ad aver messo sul fuoco la pentola con il pezzo di manzo a squagliare pian piano il suo grasso insieme al pomodoro soffritto. Il risultato non cambia: sentire odori, e in questo caso profumi, che rievocano ricette, cucine spaziose, preparazioni lunghe, e madri casalinghe con il grembiule macchiato di olio e il mestolo di legno in mano, in alcune zone della città è diventato una rarità che ci sorprende quando il profumo arriva fin sotto le nostre narici. Con tutto il sostrato inevitabile di nostalgia che provoca questa sorta di apparizione all'olfatto.

Il ragù di carne è bandiera inconsapevole di un tradizionalismo che culliamo anche noi, bestie cibernetiche e sradicate e poliglotte, nei recessi della nostra anima. E più giriamo, e più volteggiamo nella postmodernità, più abbiamo bisogno di tornare nella cuccia calda delle nostre assenze.

È il mondo del «come una volta» che un poco lasciamo volentieri alle nostre spalle e che invece andiamo a rincorrere, soprattutto noi metropolitani, nelle trattorie tipiche, nei deschi di formaggi e salumi tradizionali, nella cinematografia sempre più rievocante, negli scorci di quartiere dove la fantasia capitombola all'indietro, perlomeno a quando noi quarantenni eravamo piccoli. E chiunque associa il ragù, proprio il ragù di carne, lungo da preparare, al pranzo della domenica, un totem italico che si è sbriciolato nelle famiglie mononucleari e nevrotiche.

«Il profumo è fratello del respiro» scriveva Patrick Süskind. È il modo in cui il nostro olfatto conosce il mondo. Anche quello che scompare, o quello che segna il mescolamento e l'apparizione delle comunità straniere, e degli odori culinari di cui sono portatrici. E infatti è diventato più semplice farsi sorprendere dagli odori di spezie, delle cucine filippine, indiane o nordafricane, simbolo odoroso delle nuove identità forti che avanzano sul territorio di noi italiani, occidentalizzati al modo nordico.

I surgelati pronti all'uso, i tofu e i petti di tacchino proteici sono sì salutari, ma non hanno odore, certamente non un odore in grado di infilarsi sotto la porta di casa e irradiarsi in un pianerottolo.

E la scomparsa del ricambio generazionale in cucina, da madri a figlie o da suocere a nuore, l'evaporazione della pasta-di-mamma, la delega della preparazione del pasto ai precotti da supermercato, alle rosticcerie o per i più chic a tate addestrate alla benemmeglio a una cucina abborracciata, in tempi di cuochi-star e di retorica dell'identità culinaria italiana, be', è tema serio e filosoficamente molto, molto calorico. E non basta certamente, in tempi di ossessione delle pari opportunità, mandare i maschi a scuola di cucina per trasformarli in solerti chef casalinghi.

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